Regia di Sabrina Bonaiti, Marco Ongania vedi scheda film
Ventisei anni di esistenza passati a constatare «l’incompatibilità di poesia e vita», Antonia Pozzi era già stata portata al cinema da Marina Spada con Poesia che mi guardi. Bonaiti e Ongania, supportati dalla ricerca del recentemente scomparso Angelo Sala, si avvicinano alla personalità della poetessa milanese con un approccio tra filologia e lirismo, riuscendo nell’impresa di suturare documentario e fiction con discreta grazia. A partire dalle parole dell’autrice, mai pubblicate in vita, e dalla sua attività parallela di fotografa, i registi pedinano Antonia in un percorso intimo che ha il baricentro a Pasturo, in provincia di Lecco, luogo di villeggiatura estiva e patria elettiva della poetessa: le vie del paese sfiorate dalle sue parole, le rocce della Grigna che scalava fin da bimba («non monti, anime di monti»), la terra nuda dove lei, nuda, si sdraia. La voce fuori campo accompagna le immagini senza inseguire l’evocazione suggestiva di un sentimento, ma ancorando i versi alla matericità del territorio su cui sono stati partoriti, rendendoli protagonisti. Nel tentativo, riuscito, di scolpire fisicamente la poesia sullo schermo, risultano molto meno convincenti le poche sequenze dialogate, che ricostruiscono in modo più farraginoso alcuni passaggi cruciali dell’autrice morta suicida nel 1938 (dalla vicinanza ad Antonio Banfi alla passione con Dino Formaggio), slabbrando un equilibrio che i registi hanno ostinatamente perseguito, in onore dell’arte, prima che della vita, di Antonia Pozzi.
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