Regia di Matthew Vaughn vedi scheda film
Vaughn ha una carriera segnata dai fumetti, sin dal divertente Kick-Ass per proseguire con X-Men: l’inizio e arrivare al nuovo Kingsman, liberamente tratto da una graphic-novel di Mark Millar. Kingsman è anche la “naturale” evoluzione di premesse rintracciabili nel film sui giovani mutanti ove l’ambientazione Sixies permetteva di giocare con l’estetica pop dei primi Bond e travestire Fassbender da elegante e pericolosa canaglia. Inoltre gli X-Men, in quanto supereroi, portavano a compimento le ambizioni dell’aspirante e imbranato giustiziere mascherato del film precedente che, come il successivo e il più recente, raccontano il Bildungsroman di un giovane a confronto con un destino inedito.
Il travaso della tradizione spionistica dagli Anni Sessanta alla contemporaneità comporta una virata videoludica evidente sin dall’incipit, con rovine di una fortezza che si trasformano nelle lettere della sigla d’apertura gettando immediatamente un manto di irrealtà al contesto che vibra subito di ironia. E il film manterrà sino all’epilogo l’incertezza sulla chiave tonale, alternando esibita irriverenza a violenza manifesta, sarcasmo burtoniano (le esplosioni - multicolori - di cervelli come in Mars Attaks!) e cinefilia metatestuale, con la padronanza delle trame-tipo dei Bond d’annata da parte degli stessi personaggi e la sfida tra battute ad effetto. Tra citazioni puntuali ed eccessi di emoglobina, il regista ammicca a Tarantino, sottolineando le sue intenzioni anche nella scelta di Samuel L. Jackson nella parte del nerd post-rap tardone (e con deficit di pronuncia), nonché genio del male di turno. Ma le accelerazioni grafiche e la ricerca di falsificati piani-sequenza portano più dalle spumeggianti parti di Guy Ritchie e del suo cinema ludico-parodico, sempre fumettistico per artefatti e per approccio, mentre la pellicola mastica la memoria di Harry Palmer facendo di Michael Cain lo pseudo-M dei Kingsmen. Dai Bond più “conneriani” il film eredita la strampalata trama con progetto di armageddon guidato dall’ovvio miliardario pazzo e del sicario efferato dalle peculiarità fisiche pronunciate (in questo caso: piedi a molla simil-Pistorius con lama tagliente), assieme all’eleganza retrò della divisa degli agenti (completo di sartoria inglese), con evidenti interferenze anche della serie The Avengers, Agenti speciali (e del signor Steed in special modo), già maltratta al cinema da Jeremiah Chechik. Ma ogni riferimento, per esasperazione ed esibizione del modello, viene accentuato sino al paradosso della sua stessa negazione, trasformano l’omaggio in parodia e la citazione in modernismo di facciata.
Ad esclusione del ricorso all’artificio hitchcockiano dell’eliminazione del protagonista come efficace colpo di scena (ma la serialità americana se ne è ormai appropriato facendone una tappa quasi obbligata della sua moderna narrazione), il film si presenta infine come una sequela di cliché da cui si distingue solamente per una certa tentazione anticlassista. Se il Kingsman è una società ultrasegreta e para-spionistica internazionale, le sue modalità di espressione e i codici culturali di riferimento sono aggressivamente British, tanto da essere tacciabile di snobismo ed elitarismo. I novelli cavalieri della tavola rotonda, chiamati a risolvere crisi di particolare gravità assumendo in codice l’identità dei leggendari eroi, sono spesso eredi di antichi lignaggi e guardano con sospetto il giovane protagonista, proveniente dal proletariato urbano e dal disagio della periferia disfunzionale come la famiglia. Ed echeggia ripetuto il motto della possibilità di issarsi al di sopra delle proprie origini sfruttando ogni capacità e realizzarsi appieno. In altre parole, progressismo a parte, l’inglesità esacerbata dell’impianto diventa una mera vetrina di “bondismi” di riporto, infranta, annullata e subito soppiantata, con risate e divertita cattiveria, dall’americanità del self-made man, ispirato da un mentore ma affermatosi individualmente, rivelando così, di fatto, il vero pubblico di destinazione (e di riferimento) di una pellicola soltanto falsamente tradizionalista. La quale, così, aggiunge la sua cifra estetica apparente al novero dei luoghi comuni felicemente maciullati ma da cui, comunque, furbescamente si alimenta.
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