Regia di Matteo Garrone vedi scheda film
“Allora, io vi ripeto ciò che vi ho già detto: ogni desiderio, ogni azione corrisponde a un'altra. Ogni desiderio violento come il vostro può essere solo soddisfatto con la violenza. E questo ha un costo.”
I sovrani di Selvascura desiderano ardentemente un figlio, ma pare che la regina (Salma Hayek) sia sterile. Il re (John C. Reilly) segue dunque il consiglio di un negromante (Franco Pistoni), secondo il quale una donna può restare incinta e partorire immediatamente dopo aver mangiato il cuore di un dragone marino, a patto che sia cucinato da una vergine sola.
L'impresa viene portata a termine, non senza gravi ripercussioni immediate e future; sedici anni più tardi, l'erede al trono Elias (Christian Lees) è inseparabile amico dell'identico Jonah (Jonah Lees), figlio della servetta vergine che cucinò il cuore di drago…
Il re di Altomonte (Toby Jones) è talmente preso dal proposito di accudire una pulce da trascurare la tenera figlia adolescente Viola (Bebe Cave), orfana di madre e unica pretendente al trono; frattanto che la pulce diventa gigante, l'impacciata e non proprio avvenente Viola manifesta il desiderio di sposarsi e lasciare il castello. Ma l'esito del cimento ideato dal re per trovare uno sposo è a dir poco infausto…
Il re di Roccaforte (Vincent Cassel), incontrollabilmente lussurioso, si invaghisce del canto di una voce femminile. Il sovrano segue la voce e giunge all'esterno di una casetta, dove in realtà vivono due anziane signore, artigiane di tintoria; le due, sempre nascoste dietro la porta, intuiscono subito che le lusinghe del sire sono da cogliere al volo, nonostante il loro aspetto fisico. Dapprima promettono al vizioso sovrano di mostrargli un dito, ma le richieste si fanno insistenti e l'inganno avrà vita breve…
“Questa volta però è stata una vera e propria rivoluzione, perché di solito negli altri miei film partivo dalla realtà per arrivare ad una dimensione più immaginifica, mentre questa volta è successo esattamente il contrario." [Matteo Garrone]
“Il racconto dei racconti” è l'ultima fatica di Matteo Garrone, nonché il primo dei suoi film girato in lingua inglese con un cast internazionale; accolto in maniera tiepidina al Festival di Cannes dello scorso anno, è un film che – per ammissione del suo autore – segna un punto di svolta, che rende difficili le previsioni sulla filmografia a venire del regista romano.
Da più parti, a prescindere dal gradimento, si è (doverosamente) sottolineata la temerarietà insita nel fare un film di questo tipo nell'asfittico panorama italiano. “Il racconto dei racconti” è basato su tre novelle delle cinquanta che compongono “Lo cunto de li cunti”, raccolta di fiabe d'epoca barocca edite dal letterato giuglianese Giambattista Basile.
Dunque un film anomalo e fiabesco, fatto più di tradizione, costume barocco e antico folklore piuttosto che di fantasy, genere di gran lunga posteriore a Basile e che tende per sua costituzione a richiamare un pubblico molto giovane, che Garrone invece non cerca affatto. Anzi, i piccoli spunti di riflessione connessi alle vicende sono maturi e complessi, allontanando il puro intrattenimento; ma sarebbe sbagliato dimenticare che si tratta anche e soprattutto di un esercizio formale, col quale Garrone fa tesoro della sua esperienza giovanile di pittore e sfrutta conoscenze e abilità “compositive” di primo livello. Da rimarcare, a tal proposito, le location selezionate: i suggestivi scenari sono tutti tesori più o meno nascosti della nostra penisola, dalle Gole dell'Alcantara al Castello di Donnafugata, passando per il Ponte del Diavolo di Borgo a Mozzano (citato come nota campanilistica: dista una cinquantina di chilometri da dove scrivo).
Il principale difetto de “Il racconto dei racconti” è costituito dal fatto che le storie scelte da Garrone (incentrate su donne in tre diversi periodi vitali, su sovrani e su giovani) sono collegate da esigui raccordi e condotte in maniera non particolarmente felice: spesso al crescendo di una storia corrisponde la stasi di un'altra, il che va a spezzare tremendamente il ritmo. Certo, la narrazione separata sarebbe stata forse troppo schematica, ma non posso che notare come la soluzione adottata in fase di montaggio non sia del tutto riuscita. I cunti difettano gioco forza di complessità e approfondimento, portando alla monodimensionalità di alcuni personaggi, talvolta con la complicità del relativo interprete (si veda un Cassel indolente).
La regia di Garrone, solitamente degna in tutto e per tutto di elogio, dispensa momenti superbi, stavolta alternati a timide manifestazioni di disagio in alcune sequenze, specie quelle più movimentate e scomposte, che mancano di un vero e proprio trasporto. Vanno citate anche novità sul piano operativo non da poco: è qui fondamentale – come non mai nella carriera del regista - l'apporto degli effetti speciali, che non lesinano sulle sporadiche pennellate truculente, accentuate dalla vivida fotografia di Peter Suschitzky (collaboratore consueto di David Cronenberg). Incantevole e indispensabile la colonna sonora di Alexandre Desplat, necessaria e cangiante conferma da “Reality”.
Ondivaghi, invece, gli attori: paradossalmente sono i nomi noti a convincere meno (ovvero Cassel e, in minor misura, la Hayek), mentre sono ottime le prove nel secondo episodio di Toby Jones e della poco più che esordiente Bebe Cave, 17enne inglese che si impone di tenue prepotenza con l'unico personaggio gradevole dell'intero film.
“Il racconto dei racconti” è un lavoro ricercato, di un'elegante e calcolata appariscenza, finanche freddo nonostante il calore dei suoi cromatismi. Opera barocca, insomma. Imperfetto, ma fa ben sperare.
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