Regia di Matteo Garrone vedi scheda film
La grande disgrazia del cinema italiano contemporaneo è il suo grande avvenire dietro le spalle. Dio solo sa il male che procurano al cinema italiano coloro che cercano nel passato una legittimazione per il presente. Bisogna mettere subito in chiaro una questione: Matteo Garrone non è né il nuovo Pasolini versante trilogia-della-vita evocato in quel di Cannes, né il nuovo Fellini che tiriamo sempre in ballo quando vediamo un po’ di “cinema delle macchine”, né il nuovo Bava o Freda che comunque sono i due riferimenti più pertinenti benché limitanti. La cosa maggiormente interessante del Racconto dei racconti è proprio l’approccio in qualche modo neofita nonostante la tradizione: rifondare il cinema italiano dell’immaginario fiabesco, partendo da un archetipo del genere saccheggiato dalla letteratura europea e dimenticato da noialtri, lavorando sull’idea fortissima e caratteristica di un ritorno all’artigianato, contaminandolo con l’influenza delle narrazioni seriali soprattutto televisive. Ci aveva già provato Rosi, altro mostro sacro che si cita quando si parla di Garrone, con il brillante e fiacco C’era una volta, ma l’operazione, se vogliamo anche culturale, ha un’ambizione produttiva ed estetica più internazionale.
Il ritorno alla tipicità italiana della fiaba popolare si interseca con l’ossessione garroniana per la centralità del desiderio. La terna selezionata nel magmatico Conto de li cunti ha in sé il germe della disperazione, un fil rouge come il sangue che sgorga in tutte le narrazioni messe in scena: una regina (Salma Hayek senza particolari guizzi) che mangia il cuore di un drago per restare incinta, sacrificando il marito mandato a morire per conquistare l’organo; un re (l’ottimo Toby Jones) che alleva amorevolmente una pulce e mal marita la figlia trascurata; un altro re molto lussurioso (Vincent Cassel in pieno istrionismo cialtronesco alla Gassman) che sposa una vecchia tornata giovane e bella grazie ad un incantesimo. Desiderio di maternità, desiderio di creazione, desiderio di possesso: tutti, volendo, assimilabili ad un maledetto desiderio di onnipotenza naturalmente insito nelle figure dei regnanti, a loro volta legati indissolubilmente ad un devastante rapporto con le bestie, con la trasformazione, con la bestializzazione dell’animo.
Racconto fieramente popolare esaltato dalla meravigliosa riscoperta di un’Italia che si fa altra da sé al di là della cartolina (cito solo gli esterni degli spettacolari castelli di Roccascalegna, Castel del Monte e Donnafugata), purtroppo soffre della sua architettura narrativa vagamente squilibrata nel calibrare le tre storie, con un’attenzione certamente più esposta nei confronti del melodramma della regina e dei gemelli che perde in compattezza allorquando guadagna in suggestione della metamorfosi (lo scontro nella grotta difficilmente dimenticabile). E se l’episodio della vecchia-giovane ha un andamento da commedia (la colla sulla pelle) che progressivamente si vota alla tragedia, quello della pulce risulta il più affascinante e forse riuscito benché il meno sviluppato nella dicotomia tra parabola del padre negligente ed avventura di formazione della principessa. Tuttavia il film, forse più pensato che vissuto ma vivaddio temerario e spericolato, avvinghia, intriga e qua e là magnetizza, accarezza e poi colpisce proprio per la sua complessa natura tra il rustico, il gotico e l’allegorico.
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