Regia di Matteo Garrone vedi scheda film
Maraviglioso Garrone.
I racconti(ni) del racconto (che non c'è): brandelli di un corpo filmico - incidentalmente, pretestuosamente "fantasy" - (col)legati tra loro da esilissime ellissi spaziotemporali. Un funerale, un'incoronazione: pochi secondi e unità dei luoghi disunita, random, disvelano la mera struttura episodica. Tre novelle fiabesche con la morale (ma quanto è insopportabile l'ultimo divino ammonimento, con la giovane e bella che sta per ritramutarsi in vecchia cenciosa!), ancorata a modelli e linee di pensiero appartenenti a remote ere (la fonte letteraria, Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile) che, adagiandosi mollemente sulla - banalmente inevitabile - "universalità" di talune tematiche (la paura di perdere coloro che si ama, le forme del potere, l'immor(t)alità, le brame di maternità, l'esercizio del controllo da parte di padri e madri) non riesce - o se ne dimentica, forse - a trovare valida corrispondenza con la realtà contemporanea. L'effetto è lo stesso di quando si riprende in mano una vecchia raccolta di fiabe letta nell'infanzia (o della visione dell'ultima opera firmata dai Taviani). Rimane così un film incastonato come una vistosa pietra preziosa nella sua cerebrale programmaticità, capace certo di alcuni buoni spunti grotteschi ma sostanzialmente disomogeneo, distante, e di cui, alla fine dei (rac)conti, non rimane granché. Oltretutto, sottolineato il meritorio coraggio di Garrone di misurarsi con codici assai inusuali per la nostra monoespressiva cinematografia, lo stesso regista non fa altro che ricordare (quasi rinfacciare) la scelta del genere non essendo in grado però di giocare con i sottogeneri connessi. Sporadiche (ed "ultra-light") istantanee virate sul dettaglio macabro/horror (il cuore divorato) o sull'elemento violento (gli ammazzamenti dell'orco) non fanno un credibile consistente organismo-film. E d'altronde, tutto è subordinato alle indubbie virtù dell'autore de L'imbalsamatore e di Gomorra di comporre immagini e sequenze formalmente suggestive, raffinate, visionarie. Un senso non indifferente per la ricerca e la composizione visiva (re)t(r)attile: si percepisce nettamente, quasi al tocco, la maraviglia delle location (scelte tra alcune delle meno note del Belpaese) ma la natura meramente immaginifica dell'opera fa ritrarre qualsiasi forma e voglia di contatto. E il film - i suoi resti postvisione - rimane lì, in un luogo inaccessibile e destinato all'oblio, tra l'opulenza visiva (da menzionare il lavoro superbo del direttore della fotografia Peter Suschitzky), il fermento sonoro (idem come sopra per l'infallibile Alexandre Desplat) e una galleria di personaggi diversamente interessanti (con attori più o meno efficaci, da Salma Hayek imbalsamata a Vincent Cassel irritante, da Toby Jones di mestiere a una Bebe Cave invece sorprendente) alle prese con storie(lle) di fugace interesse e peso.
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