Regia di Matthias Glasner vedi scheda film
DER FREIE WILLE
“Un uomo morto non stupra”. L’iconoclasta urlo femminista viene implicitamente accolto da Theo che lo eleva ad una resa incondizionata del suo essere. Theo non può essere diverso da se stesso e si uccide.
In estrema sintesi questa è la sostanza di Der Freie Wille, il film del regista tedesco Matthias Glasner vincitore di un Orso d’argento a Berlino nel 2006 e del Trieste Film Festival nel 2007, nonché premiato a Chicago e Tribeca per l’interpretazione maschile di Jürgen Vogel .
Il significato del film sta esclusivamente nel protagonista, Theo: che cosa vuol essere questo nome? Un grido di condanna? Una protesta? Oppure un’invocazione? Una sfida? Tu, Dio, non mi dai speranza e la possibilità di redimermi. Mi lasci, però, la libertà di uccidermi, unico rimedio che ho per estirpare il male da me, per liberare il mondo da me e me da me stesso. Ma questa non è la suprema bestemmia, il dichiarare apertamente che siamo alla mercè di una creazione assurda che ha scatenato un’incontrollabile proliferazione di follia?
Der Freie Wille a noi è parso soprattutto questo: un esplicito atto d’accusa a Dio.
Nel film non c’è il passato del protagonista. Non sappiamo nulla della sua famiglia d’origine, del padre o della madre: non c’è analisi e/o giustificazione psicanalitica. Manca il pensiero. La storia, come spesso avviene nella filmografia tedesca, ha una sceneggiatura scarna, reticente, eppure drammaticamente incisiva, determinante. Il nostro presente non ha pensiero. L’uomo non può difendersi. Quello di Theo è l’atto finale di una tragedia annunciata ed inevitabile oppure è il mezzo supremo di rivendicare la propria libertà?
Sartre propenderebbe per questa seconda ipotesi. Theo si uccide, usando della sua volontà e del suo pensiero, perché non è in grado di combattere contro se stesso: è uno stupratore. Quel male è dentro di sé e lui non riesce ad eliminarlo. Ma, dall’incapacità, dall’impossibilità di un agire libero, può nascere un pensiero libero?
Ancora, nulla viene indagato per spiegare, capire, risolvere. Non c’è neppure un dibattuto giustificazionismo sociologico a premere. Come in Dead Man Walking (Tim Robbins, USA, 1995),il protagonista è colpevole e nient’altro. Oppure no? Nella scena in cui, all’interno di una chiesa, Theo mostra a Nettie la sorpresa promessale il giorno prima, non è a Dio che si rivolge, ma alla Madonna. La radio di Nettie, da cui è uscita l’Ave Maria di Schubert, si è sintonizzata con la speranza di Theo. Allora, chi è Theo? Con quel nome egli si rivolge alla ‘madre’, forse perché il padre lo ha già abbandonato una volta. Poi, dovrà fare appello a se stesso e a quella chiamata potrà rispondere solo con l’annullamento di sé. È il suicidio di Dio che viene messo in scena? Nell’atto finale, Nettie, che aveva assistito impotente e delirante alla sua morte, tiene Theo appoggiato al proprio grembo, come un Cristo deposto, accarezzandogli la testa. Lo sguardo va lontano. Il cielo sta rischiarandosi e sullo sfondo un uomo corre lungo la riva di un mare che si vede a stento.
Il film, dunque, non mostra la “storia di un uomo costretto a vivere al di fuori di ogni contesto sociale”, come leggiamo nella motivazione della giuria che ha premiato Der Freie Wille a Trieste; in nessun momento ci è dato di sospettare una critica (anche solo implicita) ad una società sessualizzata, motivazione quest’ultima addotta dal critico americano Ian Johnston su Bright lights film journal. Anche ammettendo una presenza sotterranea e sottintesa di quegli elementi, non è su di essi che verte il film: sono solo paraventi a cui le immagini e la sceneggiatura del film non danno accesso.
Un film come questo può innescare mille punti interrogativi. Oggi, l’estremo baluardo della libertà di pensiero è forse il punto più avanzato rimasto all’uomo braccato da un sociale che lo ipnotizza, lo manipola, lo deteriora. Ma è l’ennesima utopia. La scienza ci dice che tutte le infinite connessioni cerebrali, in unione con gli stimoli esterni che bombardano la mente, fanno sì che le nostre azioni siano soprattutto legate a fattori istintuali e che la natura del nostro volere raziocinante rivesta un ruolo secondario. Siamo comunque un insieme di cromosomi che abbiamo ereditati e le modalità del nostro pensiero e il nostro volere sono prevalentemente indirizzati ad ambiti da cui non possiamo prescindere.
Il film ci mostra due stupri. Ma sappiamo da Theo stesso che ne ha compiuti tre e che l’ultimo a cui assistiamo sarà il suo quarto. Nella prima circostanza Theo si trova sotto forte stress emotivo. All’interno del suo ambiente di lavoro, si sente provocato e scatena una rissa. Dopo aver spaccato tutto se ne va via con l’auto e incrocia la vittima occasionale che sta andando in bicicletta. Il suo volto subisce una trasformazione analoga a quella di Jeckill/Hide impersonato da Spencer Tracy e ricorda l’espressione di Klaus Kinski vista in tanti film. Nella scena successiva lo vediamo, diversi anni dopo, parlare davanti ad una commissione che deve stabilire se mandarlo in un appartamento con altre persone, sotto il controllo di Sascha. Theo ha trascorso oltre nove anni in una struttura psichiatrica che ne ha tentato il recupero. Da due anni ha smesso di assumere farmaci inibitori della sessualità ed è stato dimesso. Adesso ha i capelli più corti, il viso più rilassato, ma più perso. Sembra un uomo ricostruito, un Frankenstein. In questo lungo intervallo potrebbe stare la chiave di volta del film. Ma, ribadiamo, né il regista, né la sceneggiatura autorizzano una lettura e una giustificazione sociologica della vicenda. Theo trova lavoro in una stamperia, dove conosce la figlia del titolare, Nettie, impersonata in modo palpitante e idiosincratico in uno da Sabine Timoteo. La ragazza, 27 anni, sta per andarsene dalla casa del padre. Parallelamente assistiamo alla scena della donna che rifiuta- sfugge il genitore e a quella di Theo, che, a sua volta, non viene accettato da una cameriera di una pizzeria con la quale ha tentato un approccio. Il film ci fa capire che quei due destini stanno convergendo. Al supermercato Theo incontra Nettie e le presta una piccola somma di danaro per la spesa. Una successione incalzante di immagini mostra una situazione in cui i due prendono a frequentarsi con un mix di diffidenza, speranza, tensione e repulsione. Dopo che Nettie è partita per seguire uno stage lavorativo in una fabbrica di cioccolato in Belgio, vediamo Theo in un negozio di abbigliamento sportivo. Alla sera attende fuori la ragazza che l’ha servito, la segue e a notte inoltrata riesce ad entrare nel suo appartamento. Si avvicina a lei addormentata, nel buio e le toglie le coperte che la ricoprono in parte. La scruta in tutta la sua bellezza, sta per cedere alla tentazione di toccarla, ma riesce a fuggirsene via.
Questa scena ricorda in modo singolare un’altra formalmente del tutto analoga vista in Nelly et Monsieur Arnaud, l’ultimo film di Claude Sautet (Francia, 1995). Là, Michel Serrault si sofferma al buio davanti al letto di Emmanuelle Béart: il sogno di un vecchio s’infrange contro i limiti anagrafici e sociali. Qua, vediamo una battaglia vincente nel vano tentativo di abbattere il mostro che è dentro di sé. Il giorno dopo Theo va in Belgio a cercare Nettie e darà corpo ad un’inutile illusione.
Enzo Vignoli,
6 agosto 2008.
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