Regia di Piero Messina vedi scheda film
(Estetizzante. Un buon dizionario ci illumina: che ostenta estetismo. Estetismo: porre al di sopra di tutto il bello). Stranamente un film italiano ha suscitato un piccolo dibattito e rimando alla stimolante e notevole discussione scaturita dalle dichiarazioni del regista e di alcuni studiosi: //www.filmtv.it/post/32022/forma-o-contenuto-considerazioni-sul-dibattito-critico/#rfr:home. La speculazione verte sull’idea che l’attuale atteggiamento dello spettatore medio, e peggio del critico medio, di fronte ad un oggetto filmico si limiti ad una mera discussione sul valore dei contenuti, dimenticando, se non proprio ignorando, diciamo così, i codici per interpretare l’immagine. Tutto molto interessante, ma forse sfugge il vero problema di un film come L’attesa, che è certamente il pretesto per fare il punto della situazione ma anche l’opera che riafferma prepotentemente il discorso sulla persistenza “pensiero cinematografico”: la sua arroganza, che, si badi bene, non va intesa in un’accezione esclusivamente negativa. Piero Messina sa scrivere il cinema, conosce le regole dello schermo, è stato l’aiuto regista di Paolo Sorrentino e di sorrentinismo è, e sarà, prevedibilmente accusato, in una esplicita e sfacciata manifestazione di talento che risente di plateali evocazioni sorrentiniane. Tuttavia da subito, sin dalle prime scene così ben “griffate” in una Sicilia fotografata con magnifica attenzione tanto all’aridità quanto al barocco (l’esimio Francesco Di Giacomo), si cova il dubbio che la confezione soffochi la narrazione: Messina descrive fin troppo splendidamente, controlla tantissimo la macchina da presa negli interni asfissianti e negli esterni incontaminati, inonda la scena di silenzio e musica: troppo.
Opera prima di sfrontato virtuosismo, L’attesa vuole stupire con un materassino rosa shocking che vola nel cortile della villa, con l’assoluta simmetria delle riprese dentro le stanze, con la luce che vi entra attraverso le feritoie e i giochi di specchi anche oscurati. E per tutta la prima parte, ed anche oltre, non sa emanciparsi da questa dittatura dell’immagine, conciliandosi con un estetismo un po’ patinato (per un pubblico internazionale eterogeneo: caldo e conviviale come i turisti si figurano l’Italia, riflessivo ed assorto perché siamo dalle parti di Pirandello) che contraddice l’idea di una rappresentazione oserei dire pensante. Può apparire impegnativa come polemica, e forse pure senza fondamento, ma non è un caso che il film esploda, o perlomeno abbia un sussulto, dall’entrata in scena dei due ragazzi: è vero che il ballo è diventato uno dei cliché più noiosi del cinema d’autore nostrano (riecco Leonard Cohen), ma è pur vero che si percepisce finalmente qualcosa al di là dell’ostentazione della forma(lità). E cosa? La negazione del senso della perdita. E sì, c’è qualche cristologia in eccesso nel finale in cui il folklore assume una funzione drammaturgicamente interessante benché oltremodo forte per non poter risultare infine fragile. Non basta la pur ottima Juliette Binoche, in tour de force immolato al dolore perfetto con echi bergmaniani nel senso di Ingrid, a salvare all’estremo un film che non riesce a connettere ciò che si vede con ciò che suggerisce, ciò che espone con ciò che propone. Merita una seconda visione, più attenta alla narrazione da individuare tra le pieghe delle immagini: per ora è un film bello, ma non un bel film.
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