Regia di Alanté Kavaïté vedi scheda film
Gli angeli vengono tra noi per indicare le vie del cielo. Non tutti sono santi. Ed alcuni sono davvero bizzarri.
Con forza. Il nome Sangailé significa questo. Ma la giovane che lo porta ha tanta paura. Di amare. E di volare. Che forse, poi, sono la stessa cosa. La vertigine attraversa questo film come un lampo di luce anomala, che irrompe nell’oggi ma è come uno sbiadito riflesso del passato. La bellezza appartiene ad un altro tempo. Agli anni in cui la madre di Sangailé era ragazza, e si sollevava sulle punte in palcoscenico, rapita fuori dalla realtà dalle note di una sinfonia. È una nostalgia che si tinge del vecchio technicolor di una pellicola d’antan, con i costumi dell’immediato dopoguerra, con i sogni ancora appesi ai volteggi di un aereo liberatore. I ricordi pesano, ma si può far finta che siano leggeri come piume, come stoffe colorate, come veli gonfi d’aria e punteggiati di lucciole. Solo così si può immaginare che scendano dal cielo, per salvare il corpo dalla crudeltà delle schiavitù invisibili, che pure reclamano, in silenzio, il loro assurdo tributo di sangue. Sangailé si spoglia per farsi del male, per offrire la pelle ai tagli di una lama. Fino a che Auste non verrà a cucirle dei vestiti, per renderla parte di un mondo variopinto e tutto da inventare. L’amicizia femminile può essere una complicità che redime attraverso un gioco criptico, ispirato a un codice segreto, comprensibile solo a che vi prende parte. Così è per Sangailé ed Auste, che seguono le regole dell’indeterminatezza, nell’universo sfumato in cui l’amore è incerto e sottinteso, e si fa esplicito solo nell’istante in cui si sublima. La poesia infantile e tentennante di questa storia cattura lo sguardo con la sua inconsistenza, a volte riesce persino ad incantare la mente con i suoi timidi scorci di prevedibilità. È una toccata e fuga da principiante, che però aspira a diventare qualcuno, superando i limiti del proprio orizzonte. Sangailé si arrampica sempre più in alto: su un tetto, su un binario sospeso, su un traliccio. Insiste, finché il brivido non si converte in sollievo, l’affanno in respiro libero, che non ha più bisogno di cibarsi di carne, perché può vivere di sola aria, di fiato trattenuto, di semplici soffi di vento. Sotto le discontinue raffiche dell’emozione, il panneggio di questo film si sposta, irrequieto, tracciando disegni sfuggenti e informi. Difficile circoscrivere un senso, in quegli arabeschi ondeggianti. Ma il loro viavai è pur sempre una danza. Il passaggio di una marea che batte la riva senza fare rumore, accennando una carezza. E che prova così a dire e ridire, a sbagliare e cancellare, versando una lacrima, per poi ripartire da zero.
Questo film ha rappresentato la Lituania agli Academy Awards 2016.
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