Regia di Claudio Cupellini vedi scheda film
Alaska non è il territorio statunitense dell’estremo nordovest americano, ma un tipico locale barocco per il popolo della notte milanese. Psichedelia, vizi, soldi, tanti soldi, ricchezza facile, lusso sfrenato e altri fatui intrattenimenti per i “morti di fame” teorizzati dal coatto milanese Sandro, interpretato da Valerio Binasco, sono gli elementi ricorrenti dei sogni e della misera vita dei giovani nababbi. Nulla a che vedere con il Klondike.
Alaska è un dramma d’amore a tinte forti, una peripezia unica come nei vecchi romanzi dell’ottocento in cui la relazione tra i due innamorati era regolarmente minata dai casi avversi della vita. Attualizzata ai giorni nostri e divisa tra Parigi e Milano, Alaska diventa una favola neorealista dai risvolti anche improbabili, ma così efficacemente resi narrativamente da non lasciare dubbi sulla natura realistica del progetto.
Il film di Cupellini si addentra nei torbidi notturni e nei vortici della roba verghiana in un’inesorabile spinta verso l’abisso, costellata da risalite ardue e da slanci di amore puro e travolgente, rozzo e magico allo stesso tempo. Fin dalla prima stretta di mano tra i due giovani innamorati c’è l’istanza fiabesca, la sintesi simbolica sia iconografica che narrativa del racconto d’amore, di quell’amore inspiegabile e invincibile. Da quel momento fino all’ultimo rapido fotogramma troncato all’improvviso per non abbassare il climax positivo dalla scena, in perfetto stile indipendente, assistiamo, a tratti increduli, a tutto ciò che di bello e di brutto, di fortunato e sfortunato, capita ai due protagonisti e agli attori di contorno, dal problematico Sandro al vigliacco Marco, dal buon algerino Benoit allo stronzo cliente armato di pistola. Chi nel bene chi nel male, rappresentano la ferita aperta di una Milano esagerata, fatta di lusso e di sballo, onnipotenza e sterili modelli televisivi e politici.
Come sempre, il cast fa la differenza. Così, mentre Astrid Bergès-Frisbey incarna la tristezza dell’adolescenza, smorzando il fiato per la sua malinconica bellezza, Elio Germano è la rabbia del giovane adulto del nuovo secolo. Complice la straordinaria bravura dell’attore molisano, il suo personaggio ci incoraggia a sperare. Pur sbagliando e pagando lo scotto, pur preso a pugni in faccia dalla vita, ecco che la risposta energica e fisica di Elio Germano proietta il più ampio blocco sociale della società europea verso una dignificazione autonoma dello stesso, senza passare per gli abbagli del business facile, dei giri malavitosi, della patinatura e sterilità del mondo dei privilegi e del lusso. Un corpo rabbioso votato alla dignità.
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