Regia di Claudio Cupellini vedi scheda film
Alaska. Sogno di libertà.
Di una vita vissuta secondo i più puri e cristallini desideri che ci portiamo dentro.
Quelli che vorremmo tenerli confinati nella nostra testa, perché a tirarli fuori, provando a realizzarli (quando è possibile), vuol dire corromperli, sempre e comunque.
Infettarli col marciume in cui quotidianamente annaspiamo. E provocarne inesorabilmente la morte.
Alaska è la terra promessa che non conosce compromessi,
che non si umilia, che non elemosina, che quando c’è, basta a se stessa.
Che ammanta di un’aura divina chi custodisce la chiave d’accesso al suo paradisiaco universo.
Alaska è il punto di arrivo di un percorso immaginario che rispetta i tempi di marcia prestabiliti, giungendo a destinazione senza che soste forzate, giri in tondo o deviazioni impreviste ne rallentino il cammino o ne modifichino la rotta.
Alaska è il sogno a misura d’uomo che galoppa a briglia sciolta.
È una forza propulsiva.
Un punto di vista, un modo di sentire e soprattutto di essere.
È il romanticismo contro l’opportunismo, la felicità contro l’accontentarsi.
È il coraggio contro la viltà, il vivere contro il lasciarsi vivere.
È la speranza sulla rassegnazione,
l’essere se stessi e pagarne le conseguenze, a costo della vita, piuttosto che vestire una maschera e rincorrere convenienti scorciatoie in grado di assicurarla la vita, o meglio la sopravvivenza.
Alaska è l’ansia di vivere riempiendola di senso, conferendole una direzione.
È avere un posto nel mondo, essere re e regine del proprio piccolo regno.
È la promessa di un domani, di un raggio di sole a riscaldarlo.
È un gesto nobile, un legame profondo tra affinità elettive. Sempre più rare, sempre più uniche, così difficili da incontrare che quando (e se) capita si fatica, per scarsa abitudine, ad occuparsene con la cura che invece meriterebbero.
Alaska è uscire di scena perché fuori imperversa un vuoto terrorizzante mentre dentro ribolle l’inferno.
Perché tutto intorno è cinismo, inganno, egoismo, indifferenza.
Alaska, può trasformarsi nella propria dannazione, può diventare un paradiso (in terra) perduto.
I solitari, i sognatori, i ribelli, coloro che ancora possiedono una coscienza non possono che soccombere.
E solo il miracolo di un grande (per quanto/proprio perché tormentato) amore, può, forse, davvero fare la differenza.
Claudio Cupellini confeziona un film sicuramente anomalo (nei contenuti e nella forma) nel panorama generalmente piatto e conforme dell’attuale cinema italiano (la coproduzione d’oltralpe si vede e si sente).
Un dramma pulsante e trascinante che finalmente spazza via i toni trattenuti, dimessi, mai urlati tipici di una certa filmografia nostrana che aspira (quando non si considera già da sola) ad essere autoriale.
Guardando Alaska ritorna alla mente lo splendido, struggente La sposa turca di Fatih Akin, ma questo film è anche altro: è la necessità di raccontare l’individualismo esasperato della nostra epoca, l’anaffettività che la governa e la flagella, il senso di appartenenza a qualcosa/qualcuno praticamente estinto.
Lo sbando di un mondo moralmente alla deriva, incapace di arrestare la sua folle corsa verso l’autodistruzione.
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