Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
Il senso della vita (senescente) secondo un (rinsavito) Sorrentino. L’estetica finalmente ha un contenuto: insomma c’è un film, nel senso di prodotto per un pubblico, di cui parlare.
Dopo i riconoscimenti per la “La grande bellezza” che hanno fatto di Paolo Sorrentino un regista dall’appeal internazionale, “Youth – La giovinezza” ha l’arduo compito di confermare il talento dell’autore napoletano. E questo Sorrentino lo sa bene, tanto che assolda un cast ed una crew tecnica di respiro internazionale (riprendendo il trend di “This must be the place”) ed affronta una tematica “esistenziale” che appartiene da sempre ai grandi temi del cinema hollywoodiano. Ma se ne “La grande bellezza” i richiami a Fellini erano evidenti a partire dall’allestimento scenografico per arrivare poi ai contenuti della storia, con “Youth – La giovinezza”, il retaggio del Maestro riminese è ancora forte, anche se sembra confinarsi quasi esclusivamente nella componente estetica. Finalmente l’armonia nella dimensione pittorica diventa mera propaggine di una sceneggiatura che è il vero motore dell’operazione. Se dei film precedenti infatti rimangono a imperitura memoria lo sguardo triste di Sean Penn e il ghigno sardonico di Jep Gambardella (Tony Servillo), qui la distribuzione delle scene tra più (ottuagenari) protagonisti aiuta la funzione narrativa ad indirizzare le attenzioni sul racconto (come è giusto che sia). Ed anche la pregnanza metaforica si fa più rarefatta, calando il livello di cripticità del film e lasciando spazio ad un senso più condiviso, meno elitario, dei contenuti: insomma non più un film per se stesso, ma (forse) finalmente per lo spettatore che ama la settima arte.
“Youth” è un’opera di concetto, che serve a confermare la meticolosità registica di Sorrentino, che continua con le sue inquadrature ricercatissime, la fotografia peculiare, la ricerca spasmodica dell’angolazione ad effetto della sua macchina da presa, ma che serve altresì a veicolare in maniera originale il senso dei sentimenti che sono propri della senescenza, con cui trovare, o quanto meno ricercare, un senso della vita. “Youth” è anche un’opera per molti versi autoreferenziale, si pensi (oltre alla figura del regista protagonista) anche a quell’anonimo (!) calciatore in preda al declino fisico, che viene dal Sudamerica, palleggia con le palline da tennis rigorosamente col piede mancino, ed è accompagnato da una moglie bionda e minuta (Maradona è dichiaratamente un feticcio sorrentiniano). Per quanto (mal)celato, questo è un film per Sorrentino prima ancora che un film di Sorrentino (ma questa non è ormai più una novità). In “Youth” ci sono tutte le paure, i rimorsi, le velleità e le contraddizioni del Sorrentino-uomo (si pensi ancora al personaggio di Keitel) prima che del Sorrentino-regista ed autore.
Il film, dedicato al compianto collega e conterraneo Francesco Rosi, narra la storia di due anziani di successo, il regista Mick Boyle (Harvey Keitel) e il direttore d’orchestra Fred Ballinger (Michael Caine), amici di vecchia data che trascorrono un periodo di relax presso un lussuoso complesso di montagna svizzero. Qui, mentre Mick è propeso verso il suo prossimo lavoro, Fred pare essersi abituato alla rassegnazione, alle ipocondrie e ai pregiudizi tipici della senilità. Le vicende, i ricordi, le lunghe chiacchierate cambieranno le prospettive, gridando con straordinaria pacatezza ma con grande efficacia che la giovinezza non è una questione di età.
Complessivamente, Sorrentino non si incanta a compiacersi della propria bravura, o meglio non esclusivamente. Egli realizza un film sul valore del ricordo e del futuro, schiacciando il presente in un hic et nunc che non ha senso qualora privato delle sue naturali diramazioni in avanti e all’indietro nel tempo. Ma Sorrentino fa anche un film sulla vita, sul valore delle scelte e sulla differenza tra generazioni (si pensi al profondo e intensissimo personaggio di Lena/Rachel Weisz: bella, intelligente, “brava a letto”, eppure infelice). Su questo contrasto tra giovinezza deturpata (oltre Lena, i giovani sono: una cantante pop di mezza tacca, una giovanissima prostituta, un attore perennemente triste, una miss che campa del suo effimero talento, una massaggiatrice frustrata, degli sceneggiatori precari e perennemente insicuri) a confronto con una vecchiaia di successo (regista e direttore d’orchestra, ma anche la Regina d’Inghilterra, un fuoriclasse del calcio in declino, una diva del cinema anch’essa sul “viale del tramonto”).
Con “Youth”, Sorrentino ridimensiona quella sua velleità esclusivamente manierista di ricercare con ostentata pervicacia lo scandalo o il sensazionalismo. Ogni immagine ha finalmente una sua funzione, ed ogni interludio non è più una cartolina senza senso, buone solo per il vecchio “Intervallo” della RAI TV, i personaggi non sono più borderline per scelta, ma finalmente con una loro funzionalità semantica, uscendo così da quell’umorismo (involontario) da barzelletta “Allora, c’erano Maradona, Claudio Abbado, il Dalai Lama e Bernardo Bertolucci…”. Ed anche le rappresentazioni oniriche hanno un loro senso, uscendo da una deriva da videoclip e tornando utile alla causa: il sogno ad occhi aperti di Mick (di gran lunga la scena più suggestiva dell’intera pellicola), scaturigine dell’evento traumatico del finale, è in questo senso una scena riuscitissima.
In definitiva un film solido, un passo avanti nella carriera del regista, un’opera che certamente otterrà meno detrattori della precedente perché finalmente, qui, abbiamo un film di cui parlare (tra l’altro anche ben fatto), anziché un capriccio isterico da casalinga annoiata del Vomero.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta