Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
Un musicista e un regista si conoscono da sempre; alla soglia degli 80 anni si ritrovano in un albergo-clinica di lusso in Svizzera. Il primo chiede solo riposo e serenità per sè e per sua figlia, sposata al figlio del secondo, che sta invece ultimando la sceneggiatura del suo prossimo film, sua ultima chance per tornare al successo nonchè testamento artistico.
Finalmente, dopo i due flop consecutivi di This must be the place (2011) e La grande bellezza (2013), Sorrentino torna a girare con il piacere di farlo, abbandonandosi a ciò che sa fare meglio ed evitando di rincorrere a ogni costo, come nell'accoppiata di titoli appena citata, i clichè cinematografici più risaputi e gli effetti facili che gli sono valsi ammirazione e premi all'estero, ma che hanno pesantemente sminuito le sue grandi potenzialità, rendendolo noto più come buon imitatore che come artista capace e dotato di personalissimo gusto. Non che in Youth, fin dal titolo, non si stia strizzando l'occhio al mercato internazionale: di italiano, in questa coproduzione italo-franco-svizzero-inglese, c'è solo parte del cast tecnico (fotografia di Luca Bigazzi, montaggio di Cristiano Travaglioli, costumi di Carlo Poggioli, scenografie di Ludovica Ferrario) e i due volti di maggiore richiamo sono quelli di Michael Caine e Harvey Keitel, vale a dire blockbuster a massima potenza. Fin dalla costruzione della storia, nella sceneggiatura dello stesso regista, si può però notare una spiccata vena ironica che caratterizza il nodo centrale della trama (un intellettuale invaso da rimorsi e rimpianti, immerso in un baraccone che scopiazza ampiamente l'8 e 1/2 felliniano) e aiuta il dipanarsi di svariate propaggini narrative più o meno gustose, ma tutte accomunate dal medesimo retrogusto esistenziale dolceamaro. Certo, non mancano le banalità (quando senti dire al protagonista "tu non leviterai mai", rivolto a un sacerdote buddhista in meditazione, capisci perfettamente che entro la fine del film quel sacerdote leviterà, per es.) e le cadute di gusto, come il tormentone irrisolto del finale della sceneggiatura che Keitel sta scrivendo; pensando a come Sorrentino ha saputo chiudere la sua sceneggiatura, quella del film reale insomma, inevitabilmente ogni perplessità scompare: un gran finale magistrale e sornione, corale e malinconico in cui manca solamente una cosa, cioè la parola 'fine': e anche qui tutto procede secondo i piani, nel solco tracciato da 'quel tizio di Rimini' che tanto ha impressionato Sorrentino e prosegue inarrestabilmente a solleticarne la fantasia. Ma il succo del discorso è che Youth sta a La grande bellezza come il concetto di citazione sta a quello di plagio; c'è molto altro qui e il cineasta napoletano dimostra non solo di essersi meritato l'Oscar (sia pure con il film sbagliato), ma anche di essere un Autore con la maiuscola, fondendo insieme - in una maniera sublime che finora gli era riuscita soltanto ne Il divo (2008) - dolore e dolcezza, comicità e riflessione, una spiccata inclinazione estetica e un cuore di contenuti vivissimo e pulsante. Fare ciò che si sa fare, farlo nel migliore dei modi e concedersi di tanto in tanto alla leggerezza, ma con il sorriso: altrimenti è solo tempo sprecato; chi non spreca mai tempo rimane sempre giovane, dice Sorrentino: da tutto ciò comprendiamo quanto si sia sentito invecchiare girando i due precedenti film. Non possiamo che augurargli una lunghissima giovinezza. 7,5/10.
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