Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
Paolo Sorrentino si è preso una vacanza.
Dopo la fatica ed i fasti dell’opera che lo ha consacrato definitivamente alla settima arte.
Youth, dietro una sceneggiatura assolutamente inconsistente e irritantemente irrilevante, dietro i pochi dialoghi urlati al cielo come sentenze inappellabili, come lapidari trattati esistenziali fatti passare per perle di saggezza diluite in un mare o, meglio, in piscine a sfioro di luoghi comuni, dietro il nulla in confezione extralusso, cela un’opera personalissima, una riflessione profonda ma anche semplice e banale (come semplice e banale è in fondo la vita) che lo stesso Sorrentino fa, in forma cinematografica, sulla sua arte e sul suo attuale stato creativo di autore e regista.
È consapevole, fin troppo bene, di trovarsi ad un bivio, di non essere più quello di un tempo, quello dei suoi primi bellissimi lavori incentrati, senza dubbio, sulla ricerca estetica, ma tenuti saldamente in piedi da un sopraffino lavoro di scrittura che ancora oggi, a distanza di anni, risultano così memorabili, efficaci e preziosi.
Ma è altresì conscio di questa sua evoluzione che lo porta a spingersi verso territori di puro sguardo, in cui la parola è, e probabilmente sarà, un superfluo orpello svuotato totalmente di significato.
Forse la cosa lo spaventa, forse agli inizi del suo percorso di cineasta credeva/pensava di riuscire a mantenere un equilibrio tra il desiderio di raccontare una storia che venisse percepita come vera, che suscitasse emozioni, che appassionasse e coinvolgesse, e l’impulso di incastonarla in una forma estetizzante così forte, prepotente e smagliante da fagocitare il contenuto.
Scivolando inevitabilmente nella freddezza, nell’asetticità.
Nel vuoto pneumatico.
Il Sorrentino di oggi pare fortemente combattuto in questo senso.
Avverte ancora impellente l'esigenza di creare un cinema tradizionale che disponga di una trama solida e utilizzi corposi dialoghi-chiave per sciogliere i nodi narrativi e arrivare dritto e diretto al cuore degli spettatori, così da poterne custodire il ricordo a dispetto del tempo che passa.
Ha bisogno di un cinema classico che, però, finisce col trascurare (facendogli fare la figura di una barzelletta becera) intento com'è a lasciarsi sedurre dall’effimero, cullandosi e perdendosi in digressioni visive fini a se stesse, che veste magnificamente, accarezzando e vezzeggiando gli occhi di chiunque si fermi a contemplare il suo nuovo ultimo lavoro, cosicché un giorno saranno proprio le immagini o più precisamente la meraviglia di frammenti a sé stanti, carichi di potente bellezza, a parlare da soli dell’essenza della sua arte.
Del resto egli stesso sostiene che la futilità, ciò che in questo film chiama “leggerezza”, è una forma di perversione tra le più difficili a cui l’uomo sia in grado di resistere.
Lo fa dire ai suoi 3 personaggi principali -Michael Caine, Harvey Keitel e Paul Dano- che, a ben guardare, possiamo considerare una proiezione di sé, l’incarnazione del suo pensiero oggi dominante, diviso tra il sentirsi vecchio dentro, apatico e inaridito, diremmo ‘arrivato’ -l’oscar può procurare tali effetti collaterali, può stroncare carriere avviate e promettenti- ,
il sapersi, per contro, vivo e attivo, ancora capace di esplorare quei verdi e fertili territori che lo hanno reso quello che è adesso,
e la necessità fondamentale -se si vuole continuare a fare “questa cosa del cinema”- di guardare avanti, di comprendere quale strada imboccare nel futuro prossimo venturo, che adesso così come si presenta appare nebulosa, confusa tra il formalismo assoluto, rigoroso, raggelato, sterile, e la sostanza capace di scuotere, vibrare e ardere lo spirito.
In mezzo, il grottesco, la caricatura senza mordente. E un’ironia sempre più deteriore.
Tutti sintomi, forse, di una decadenza che incombe, di un genio in agonia, come sottolinea una furente spettrale Jane Fonda, l'unica autentica perla dell'opera tutta.
Sorrentino per il momento (si spera sia solo per il momento) sceglie di non scegliere, si sollazza inquieto nei suoi eleganti e ridondanti giri a vuoto munito di mdp (e i-pod), nelle sue ammalianti eppure stancanti e, alla lunga, fastidiose riprese (con tanto di studiatissimo commento musicale funzionale a far scattare l'empatia e far sgorgare una furtiva lacrima) che calzerebbero a pennello se pensasse seriamente di cimentarsi nell’illustrazione di depliant informativi per soggiorni in beauty farm esclusive immerse nelle bellezze naturali della nostra lontana Europa.
Intanto rimugina, sapendo di dover impegnare lo spirito, di dover dare l’anima affinché le sue future creature emanino amore e passione.
Affinché vengano amate e ricordate.
Rese immortali.
Anche se provviste di imperfezioni.
E Youth, proprio perché giovinezza, è un’opera di transizione, fugace, labile, caduca, destinata a tramontare presto, più in fretta di quanto ci saremmo aspettati.
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