Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
Non so se, come sostengono i Cahiers du Cinema, Paolo Sorrentino stia al cinema come Rondò Veneziano sta alla musica ma in peggio e francamente non mi interessa, non tanto per patriottismo di seconda mano o sorrentinismo da salotto radical quanto proprio per disinteresse nei confronti della polemica pretestuosa di chi ha un grande avvenire dietro le spalle. In realtà non so nemmeno cosa dire riguardo Youth più di quello che si dirà, perché vivaddio è un film su cui parleremo per i prossimi mesi nei simposi in cui cerchiamo di elevarci come i monaci tibetani ed invece finiamo sprofondati come chi decide che la questione la si deve chiudere da noi quando arriva il momento.
Non sono un personaggio di Sorrentino con la frase sentenziosa nella tasca della giacca d’alta sartoria, e non mi sento nemmeno così tremendamente solo di fronte al disastro emotivo di chi non sa ascoltare il silenzio. Come i personaggi di Sorrentino, però, mi perdo volentieri nel bisogno di una visione alternativa alla realtà, vuoi per l’apatia che negli anni più tristi ci impone d’esser nolenti protagonisti, vuoi per la necessità di spingersi oltre perché da giovani si vede tutto vicino e raggiungibile e da vecchi lontano e inaccessibile e allora non perdiamo tempo. E poi preferisco il risveglio benché invaso dalla noia eppure per fortuna dominato dalla chiacchiera che qualcuno direbbe sintomo di morte e invece intendo, modestamente, testimonianza di vita.
Youth è un film che stordisce, che programmaticamente, ostinatamente, ruffianamente stordisce per il piacere, il dovere, la volontà di stordire. Come il coevo Garrone, Sorrentino torna all’idea di un’esperienza estetica all’interno della logica produttiva del grande spettacolo d’autore. A differenza di Garrone che arrischia sull’innovazione del linguaggio, Sorrentino scommette sulla sedimentazione dello stile e soprattutto sulla centralità dell’immagine a costo di sfociare nel barocco, nel kitsch, nel camp. Autore con un totale controllo dell’opera, è un incontrollabile collezionista di figure sul confine dell’installazione artistica oppure colte nel movimento naturalmente irripetibile (Raffaele La Capria, modello sorrentiniano da sempre, direbbe “La Grande Occasione”), che ondeggiano imperterrite tra la pace dei sensi e le conseguenze della prostata, l’eleganza degli uomini in più e la decadenza dei divi. Le lodi a Luca Bigazzi, mago delle luci, sono imprescindibili ed ovvie.
Abitato da anime in transito o ferite a morte con un grande avvenire dietro le spalle, questo mondo di comparse è retto da almeno tre temi: la memoria che scompare per lo scorrere impietoso del tempo (il ricordo svanito dei genitori) o che proustianamente riappare (la prima volta in bicicletta); la finzione delle vite immaginate ma egoriferite (la sceneggiatura in lavorazione, le apparizioni dei personaggi inventati, il lavoro dell’attore Paul Dano, il memorabile cameo di Jane Fonda quintessenza del cinema) e delle vite annullate eppure ancora indispensabili a qualcuno se non a se stessi (l’imprevedibile protagonista ma anche le apparizioni di cui sopra); la vecchiaia che non è né una colpa né un trauma ma un dato di fatto con cui relazionarsi in attesa che la morte ci colga impreparati per il drammatico desiderio di un’altra giovinezza. In definitiva: il tempo.
E certamente la musica, mi pare evidente, ma anche il cinema, è ovvio, e volendo l’alpinismo, il calcio, le bolle di sapone, gli orologi a cucù, i massaggi. C’è qualcosa che non funziona: non funziona un discorso narrativo (anzi, parliamoci chiaro: la sceneggiatura) pieno di scompensi (così come frammentario eppure compatto era lo squilibrato e vorticoso La grande bellezza) che alterna meccanicamente, diciamo così, “visione-dialogo-osservazione-sentenza” in una sostanziale dimensione antologica seppure organica a tutto ciò che ci siam detti finora. Eppure il film, davvero intimo nella sua generosità istintiva, emoziona: le emozioni non sono sopravvalutate, è tutto quello che abbiamo. Che è una sentenza, certo, apodittica, naturale: ma maledettamente efficace. Forse si perde qua e là, forse si abbandona troppo al suo straripante talento, forse che sì forse che no ma Sorrentino sa intercettare le emozioni di chi si accoda al suo viaggio. Senza troppi giri: Michael Caine e Harvey Keitel sono indimenticabili.
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