Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
Dichiarazioni del sorrentiniano: Paolo, ci piace di più quando ammicchi, quando dileggi il buon senso (il buon gusto?) e fai un po' il tiranno che si trastulla con la macchina da presa. This Must Be The Place, La grande bellezza, quelli erano film che facevano discutere e che proponevano un modo di vedere il mondo come estremo, barocco, patinato, bellissimo. Tra l'altro, in entrambi, il mondo andava richiudendosi nei drammi del singolo: la collettività o era sperduta, o era perduta.
Per ciò che riguarda Youth, la divisione del pubblico e della critica è solo per abitudine, dovuta alla voglia diffusa di condannare la tua, sicuramente presente, ma necessaria, furbizia (o anche di salvarla, o di non vederla). Certo, in questo nuovo inno alla giovinezza (e a cos'altro? A tutto!), ti sei dato da fare per riempire due ore, e ci sei riuscito, volendo ottimamente, specie in termini di fluidità estetica. Poi però quell'estetica non ti è bastata, e hai azzerato i movimenti, li ha contestualizzati, isolati, confinati entro i limiti delle scene oniriche che non sono, mai e poi mai, le scene reali, e hai reso tutto molto meno frammentario di quanto il film voglia far credere. Lineare, invero, ma nella maniera tua, cioè saltando di palo in frasca, andando dalle stelle alle stalle, facendoti catturare dallo splendore perverso della leggerezza. A volte sei serioso, a volte vuoi far ridere nella maniera più ingenua. I tuoi attori hollywoodiani sono costretti a sopportare sulle proprie spalle uno script pieno di ovvietà e elementi scontati, che mirano a colpire lo spettatore senza alcuna cura per la lungimiranza, per l'"utilità", o prosecuzione, di un qualsivoglia discorso, di qualsiasi natura esso potesse essere. E fortunatamente quegli stessi attori riescono a trascinare sulle loro spalle il teatrino caratteriale che speranzoso edifichi, tanto da lasciar trapelare il meno possibile l'ignavia costante delle tue scelte contenutistiche.
Il modo in cui disorienti lo spettatore (tuo sacrosanto diritto) è dovuto all'indirizzo mutevole delle sentenze, continue, che stanno sulla bocca dei tuoi protagonisti. Esse portano alle più svariate conclusioni, lanciando così tanti "messaggi" da non lasciarne nessuno. Ecco che dunque il potenziale materiale filmico che stava nelle tue nobilissime intenzioni finisce per sprecarsi, involontariamente, nelle conclusioni affrettate dei tuoi protagonisti, e nel labirintico, ma non dissacrante, modo che adotti per farli straparlare. Benché rimanga affascinantissimo il modo in cui li fai disquisire all'eccesso, tenendo zitti tutti gli altri, misteriosi, ambigui, nel contorno. Di nessuno di loro dobbiamo sapere nulla, devono stare nel loro ruolo gerarchico di figure evanescenti, impalpabili, incarnazioni esse stesse del tuo - del nostro - disorientamento.
La calcolata ricerca del disorientamento, però, non può essere giudicata a priori, specie se condotta con tale entusiasmo. Alla fine, facendo Youth, ti sei divertito, come in un calderone vi hai gettato idee, piccole ossessioni (che traccino, e che tracciano, il tuo profilo strampalatamente autoriale), straordinari momenti che fra il ridicolo e il lirico, si caricano di un'intensità, come al solito, unica. L'evanescenza dei personaggi secondari diventa, nei tuoi occhi, il modo per far crollare le certezze di tutti i personaggi principali. Ognuno ha in effetti il suo percorso (assurdo, contorto, contraddittorio), e tu li tieni tutti insieme. Tutti i personaggi, forse, vogliono cercare la giovinezza, l'ingenuità di chi possa dare un'interpretazione finale della sua vita al netto di esperienze e di emozioni provate (o ricusate nell'ostentazione di una freddezza accessoria e di facciata), ma alla fine quella interpretazione non riescono proprio a darla, e qualunque tentativo si ritorce su loro stessi. Fred snobba le emozioni; se ne ritroverà pieno, invaso. Mick riesce a creare il finale del suo film; non sa che sarà il suo, giusto con qualche ritocco. Lena non capisce la fuga di suo marito; riuscirà alla fine a percepire lo stesso odore che l'ha mandato via da lei. Jimmy si lamenta dell'ignoranza degli altri, osservando il mondo senza essere osservato come lo è sempre nei film che interpreta; decidendo di assumere una maschera a piacere, capisce cosa vuol dire interpretare e far vivere il desiderio degli altri. Nel bene e nel male, che portino o meno alla felicità o alla giovinezza, tutti questi tragitti sono il crollo di un castello di carte che tu, Paolo, fai costruire ai tuoi sperduti esseri umani. Programmaticamente, certo, ma convinto, come un ragazzino, di avere la formula giusta per capire che ci stiamo a fare su questa Terra, e perchè mai stiamo, mentre parliamo, invecchiando.
E per fortuna non hai rifatto 8 1/2, del buon vecchio adorato Fellini. Hai preso un'altra strada, scegliendo un'eterogenea soundtrack, e dando ad alcune immagini uno spessore, e un fascino, incredibili. Altre immagini funzionano di meno, ma poco importa, considerando globalmente il risultato: non sappiamo quanto volontariamente tu sia riuscito a dare ad alcune sequenze un notevole fascino, e ad altre l'etichetta distintiva del trash. E' vero anche che sei autoironico, e spesso giochi. Ma bisogna decidersi: il serio o il faceto? O forse, mettendo in bocca a Michael Caine e a Paul Dano il discorso sulla tentazione della leggerezza, ci stai dicendo che neanche tu sai cosa stai facendo?
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