Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film
Prepotenza, sopraffazione, controllo, spersonalizzazione.
Viltà, codardìa, sordidezza, meschinità.
Mancanza di coscienza, di dignità, di morale.
Solo istinto di conservazione.
Sopravvivenza.
Con “Chi sono io?” Kim ki-duk fa il punto della situazione sulla condizione in cui versa la nostra umanità. E cosa, in fondo, è sempre stata.
Spoglia il suo cinema di poesia e simbolismi e va dritto al cuore della questione che intende trattare, consapevole di quanto essa sia vasta, spinosa, complessa, articolata, sfaccettata, contraddittoria.
Si carica sulle spalle il grave fardello di rappresentarla nella sua totalità, unendo in un unico discorso -aperto, brutale, essenziale, grezzo, ieratico- le singolarità che la compongono, pur nella consapevolezza di risultare incoerente, confusionario, estremo ed esagerato nell’apparente procedere per accumulo, affastellando argomentazioni che in superficie paiono slegate, ma a rifletterci, un fil rouge che le tiene insieme esiste, eccome.
È sotto i nostri occhi. E ne siamo consapevoli perché lo proviamo sulla nostra pelle quotidianamente.
Siamo le sue (più o meno) silenti, impotenti conniventi vittime.
L’essere umano oggi (come in passato) è il risultato di un feroce compromesso tra ciò che è moralmente giusto e ciò che va fatto (indipendentemente se sia giusto o sbagliato), ovvero, ciò che è necessario fare per garantire il mantenimento, la salvaguardia e la continuità del proprio status quo, delle proprie conquiste in termini di civilizzazione, progresso, benessere, posizione sociale.
Per (l’illusione del)la felicità e una lunga comoda vita tranquilla.
Il dio danaro è il mezzo per conquistarsi un posto al sole.
È la chiave che apre tutte le pesanti porte del vivere e del relazionarci con gli altri.
È la carta d’identità, il passaporto per il mondo, la misura del nostro potere sulla terra, su chi ci è accanto.
È lo strumento principe in grado di creare folte schiere di nuovi padroni e rispettivi schiavi.
Non importa quale legame intercorra fra loro. Amanti, fratelli, amici, padri, figli.
Spesso si fugge da un padrone per incontrarne un altro. Peggiore.
L’autore sud-coreano dopo Pietà si interroga ulteriormente su un’umanità alla deriva, dove la crisi identitaria di una Nazione (e del mondo intero) affonda le sue radici nella crisi globale economica e nelle conseguenti ripercussioni e scossoni sul piano sociale.
Collassato. Mutato nel suo tradizionale assetto.
Costituito oramai da “poveri che diventano miserabili e ricchi che diventano ancora più ricchi”.
In questo drammatico disperato contesto un manipolo di poveri cristi muniti di personale storia di schiavitù ed emarginazione, violenze (non solo fisiche) subite e rospi inghiottiti, è deciso a ribellarsi all’arroganza del potere e alle sue laide gerarchie.
Si lancia in spedizioni punitive volte a 'consapevolizzare', con l’uso della violenza fisica, chi si è macchiato di azioni aberranti per salvare se stesso, quello che rappresenta e possiede, anche se ciò ha forse significato soffocare principi morali, mettere il bavaglio alla coscienza, azzerare gli scrupoli.
Obbedire semplicemente a un ordine è la formula che li autoassolve.
Scaricarsi delle responsabilità (materiali) ne è un’altra non meno condannabile.
Ma ribellarsi rispondendo alla violenza con la violenza quanto è giusto? Se è giusto.
A cosa porta, se non a diventare come i propri carnefici. O peggio ancora.
Perché a differenza loro, non ci sono scusanti e nessun attenuante che possano reggere.
Per Kim Ki-duk l’uomo non ha alternative.
Non conosce altro mezzo valido ed efficace quanto la violenza per dar voce, anima e corpo a se stesso.
Per armare il tormento interiore che lo affligge.
Per ripagarsi di un torto, di un’ingiustizia subiti.
Per compiere una rivoluzione.
Violenza che crea altra violenza, generando un circolo vizioso dove chi ha umiliato verrà a sua volta umiliato per tornare ad umiliare ancora…
Distruzione e autodistruzione perenni. E senza via d’uscita.
Sta al singolo decidere se scendere ‘pacificamente’ a patti con l’esistenza crudele a cui l’umanità è da sempre irrimediabilmente destinata -accettando di buon grado la violenza come sua componente imprescindibile- o adottare la linea dura, farle guerra, usando i suoi stessi mezzi, vestirsi del ruolo di guastatore, di colui che procede controcorrente spezzandone i flussi prestabiliti, rompendone gli impenetrabili equilibri, disvelando i taciti accordi, smuovendo il torbido, nella consapevolezza di andar incontro ad una fine, nella sua atrocità, uguale a quella cui ha destinato i suoi bersagli.
Lo si chiami pure pazzo.
Martire, o eroe.
Oppure ingenuo idealista.
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