Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film
71. MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA – GIORNATE DEGLI AUTORI (FILM D’APERTURA)
Al crepuscolo, tra i vicoli di un quartiere popolare, una giovane donna si rende conto di essere seguita e cerca di sottrarsi ai suoi assalitori, ma invano: aggredita brutalmente, viene letteralmente bloccata ed incerottata così accanitamente che il nastro finisce per soffocarla provocandone la morte.
Perché è stata assalita? Chi è la donna? Chi sono i suoi aggressori? Cosa c’è dietro tutta questa organizzazione che non pare nascere da una costola della piccola criminalità, ma al contrario essere parte di una connection occulta che proviene dai vertici politico/governativi più potenti?
Non lo sappiamo e non lo sapremo, ed i motivi di tale reticenza sono tuttavia ben giustificati.
Poco dopo l’azione, o meglio nuove aggressioni e violenze, si spostano dalla parte di un gruppo organizzato di stampo eversivo: anticomunisti vestiti in abiti marziali e dal volto oscurato da una tinta al carboncino, che, ad uno ad uno, inesorabilmente, rapiscono determinati individui (si capirà presto che si tratta degli esecutori materiali dell’omicidio iniziale) sottoponendoli ad un estenuante interrogatorio/confessione/tortura avente lo scopo di far rivelare loro, e per iscritto, l’episodio violento di cui si sono resi protagonisti.
La responsabilità di un’azione, di un ordine ricevuto, è da imputare all’esecutore materiale o all’autorità che lo ha impartito?
Escludendo di raccontarci i particolari che sottendono al misfatto, ma facendoci intuire che essi partono dall’alto, da una organizzazione filo-governativa che agisce per finalità istituzionali, seppur incognite, Kim Ki-duk entra nel cuore di un dilemma morale/civile la cui soluzione è tutt’altro che semplice e lineare. Tanto che, all’interno del gruppo eversivo, gli episodi di violenza sempre più marcati e insostenibili, cominciano a destare perplessità in un numero sempre maggiore di aderenti, che minacciano di abbandonare. D’altro canto le vittime delle torture, oltre ad uscire dall’interrogatorio fisicamente compromessi e doloranti, cominciano ad accusare anche malesseri interiori e di coscienza, che spingono addirittura uno di essi al suicidio.
Così come l’unica donna del gruppo, disgustata dalla spirale di violenza che caratterizza sempre più quei loro processi sommari, decide di abbandonare: meglio tornare a vivere con il suo greve, violento e fedifrago compagno che la umilia, la colpisce, ma le regala pure attimi, magari brevi, di intimità che riescono, al contrario della banda in cui si è inserita, a darle un barlume fioco, ma comunque presente, concreto, di realizzazione e frammenti, istantanee rapidissime di felicità.
Kim Ki-duk ha il pregio, tra i molti, di non ripetersi quasi mai nel proseguo di una carriera di cineasta prolifico e teso a ricercare i significati più profondi di una esistenza, sia essa privata, sia al contrario di una intera società.
Qui in One on one (“Uno contro l’altro”, se vogliamo cercare una traduzione più concettuale che letterale) la voluta ed insistita, quasi sadica, mancanza di dettagli con cui il cineasta ci ostenta eventi e situazioni drammatiche, che per questo motivo risultano inevitabilmente astratte e teoriche, viene a formare un mosaico di situazioni limite più funzionali per la costruzione di un teorema, dunque inevitabilmente un po’ scolastico, che per una concreta riflessione su tematiche civico/politiche che sono molto vicine, geograficamente e non (lo spettro e la minaccia di una Corea del Nord-residuato ormai quasi unico di un comunismo esasperato, assoluto e violento che fa davvero paura) alla società sud-coreana, democratica e libera, ma non per questo meno afflitta delle altre da corruzione, violenza e da una deriva morale di complessa e quasi impossibile soluzione.
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