Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film
È un film molto cupo, a conferma dell'ossessivo e crescente pessimismo di Kim Ki Duk, ed è anche uno degli ultimi del grande regista coreano fra i più apprezzati dal pubblico occidentale.
Oh Min-ju è il nome di una studentessa che, di notte in una strada di Seul, senza apparente motivo, viene aggredita e soffocata col robusto nastro adesivo che alcuni energumeni le stringono sul volto per provocarne la morte.
A questa prima scena del film seguono un po’ di telefonate in cui i killer annunciano a un misterioso interlocutore il pieno successo dell’operazione.
Non è dato sapere né chi fosse quella sfortunata signorina, né per quale motivo un’organizzatissima associazione a delinquere avesse pensato a lei per farla morire in modo così atroce.
Un’altra misteriosa organizzazione, con a capo un signore ferocissimo coll’aria dell’orientale tranquillo (verrà alla fine fatta notare la sua somiglianza con l’effigie del Budda), si è data il compito di fare “giustizia” e perciò di punire tutti gli assassini – dal killer ai mandanti – di Oh Min-ju.
Ha inizio perciò il pedinamento e la cattura dei malvissuti della prima organizzazione, che non verranno uccisi, ma torturati secondo un rito che costantemente si ripete (con qualche fantasiosa e sadica variazione) e che termina con la confessione del delitto contro la studentessa, “firmata” dai colpevoli con l’impronta di una mano ridotta a sanguinolenta appendice.
Alcuni dei torturatori, però, entrano in crisi di fronte all’efferatezza crescente del loro capo, e lo abbandonano piangente, preda dello sconforto, su una collina con vista della città, dove egli affronterà un’ultima sfida.
Molto in breve, naturalmente, ho presentato il contenuto di questo film di Kim Ki Duk, pellicola fra le più cupe e scure dopo Pietà e anche, a mio giudizio, fra le meno convincenti.
Il regista ha dichiarato che i Coreani sanno bene che Oh Min-ju nella loro lingua significa Oh democrazia, offrendoci in questo modo, se non la probabile chiave di lettura della pellicola, almeno gli intenti che gliel’hanno ispirata.
Dovremmo quindi trovarci di fronte a un’opera che è fondamentalmente una denuncia politica della morte della democrazia, sottolineata anche da alcuni passaggi del film in cui emergono temi non nuovi, ma ora molto insistiti: l’importanza crescente del denaro, per il quale diventa lecito ogni crimine; la fine di ogni solidarietà, che coincide anche con la fine della coscienza del bene e del male; la violenza che attira altra violenza in una rincorsa infernale alla vendetta; la solitudine degli uomini probi e il loro disorientamento; l’inquinarsi dei rapporti d’amore, sempre più spesso ridotti a pura sopraffazione maschile.
Né qualche imprtante osservazione, né qualche scena di indubbio interesse, riescono a cancellare l’impressione complessiva che l’opera sia in realtà dominata da un’ossessiva violenza, il cui schematico reiterarsi, infine, anziché provocare il giusto sdegno, produce soprattutto l’indifferenza e la noia di chi guarda e se ne va dalla sala, prima del the end, com’è avvenuto durante la mia visione in sala: era il settembre 2014; eravamo in parecchi all’inizio del film. ma siamo usciti in tre: che tristezza!
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