Regia di Otto Preminger vedi scheda film
Where the sidewalk ends è forse uno dei film migliori, certo fra i meno ricordati di Otto Preminger, tratto da Night Cry, romanzo che Ben Hecht scrisse sotto pseudonimo in pieno maccartismo
Presentato al Torino Film Festival 2016 per Festa Vintage, Where the sidewalk ends rientra nel progetto “Happy Returns!” di Lab80, già in campo nella scorsa annata cinematografica con “La diva fragile” , ciclo di 4 film interpretati da Gene Tierney.
Un noir post noir, che vira al poliziesco e sta con i piedi per terra con solido realismo Where the sidewalk ends parla di gente modesta che fatica a sbarcare il lunario ed è girato in seminterrati e appartamenti di dignitoso squallore o in esterni “dove i marciapiedi finiscono”, ed è lì che comincia la strada, la città si avvolge in cartacce, rifiuti urbani e cicche spente che folate di aria gelida buttano nei tombini e l’acqua di scolo infradicia le scarpe.
L ’ultimo motivo di Glenn Miller fischiettato da qualcuno è coperto dal rumore sordo della notte mentre la città dorme e macchine nere scivolano come lucidi scarabei nel buio.
Un magnifico Dana Andrews è Dixon, imperturbabile detective sempre a labbra strette, uno di quei poliziotti che non vanno per il sottile, se deve fermare un teppista non bada a mezzi.
Arriva in ritardo alla centrale, prima aveva qualcosa da dire ad un teppistello della cerchia di Scalise, un gangster a cui l’ha giurata, e il capo sta consegnando a Thomas (Karl Malden) la promozione che sarebbe stata sua se solo non fosse il poliziotto violento che è.
Dodici proteste di cittadini a suo carico solo nell’ultimo mese per violenza.
“Tu sei una grande delusione e bla bla bla…- gli fa il capo nella ramanzina privata – Il tuo dovere è trovare i criminali, non punirli”.
E, come se non bastasse, lo degrada:“Devi imparare a controllarti”.
Dixon lo guarda gelido, a labbra strette: “ E’ tutto? Grazie per il consiglio” ed esce.
Dixon è “the Dixon kid“, etichetta di cui non riesce a liberarsi, vuoi per il caratteraccio, vuoi perché certi marchi d’infamia spesso te li porti a vita. Figlio di un gran ladro morto in galera di cui Scalise è stato un ottimo discepolo, di questa tara Dixon farebbe volentieri a meno.
“Non essere come suo padre“ ha dettato le sue scelte, ma una sorta di determinismo biologico sembra accanirsi e impedire che possa farcela.
C’è un omicidio, che diremmo preterintenzionale in quanto esito di una colluttazione, e sappiamo che il colpevole è lui. Deve far sparire il cadavere, lui è pulito, il tizio è morto per una di quelle maledette disavventure che colpiscono gli onesti, ma quale giuria non lo manderebbe sulla forca? Eroe di guerra pluridecorato per ferite che gli hanno lasciato in testa una piastrina di metallo molto pericolosa in caso di caduta, il morto era marito dell’angelica Morgan (Gene Tierney), incarnazione della bellezza (quella che se non salverà il mondo almeno lo manderà felice all’inferno).
Il destino lo ha messo sulla strada di Dixon e da quel momento parte uno sviluppo di eventi in cui il caso cinico e baro gioca la sua parte migliore, fino ad un imprevedibile happy end che suona più amaro di una catastrofe vera e propria.
Preminger sa infatti manovrare così bene le sue pedine che nulla di prevedibile è destinato ad accadere, sulla scena come nella vita non si possono contrabbandare favole.
Dentro la scacchiera si muovono in tre, il principio del bene, Morgan, quello del male, Scalise (un Gary Merrill insinuante, viscido, gangster di mezza tacca che non ha l’allure dei grandi malavitosi di celebri gangsters movies ma è cinico e spietato quanto basta per dare filo da torcere a Dixon), e Dixon stesso, pedina fra questi due estremi.
Dixon e Morgan sono segnati dallo stesso destino che li sta facendo incontrare, rischiare di perdersi e infine ritrovarsi, Scalise è il fattore scatenante, ma più che personaggio reale è la proiezione per Dixon di una parte di sé geneticamente marchiata a fuoco nel DNA, quell’oscura condanna al male che ne fa una presenza tragica, incarnazione dell’ ”apparente assurdità della sventura” che Jaspers (Über das Tragische, 1952) individua come connotato fondante del vivere umano.
La correità dell’uomo nel male del mondo si spiega con quella che è la sua colpa più profonda individuata, almeno da Anassimandro fino a Caldéron, nell’ essere nato. Finita l’epica gioia dell’eroico agire, nella coscienza tragica non regna più la pace ma incalza l’interrogativo filosofico, l’oscuro conflitto dell’uomo innanzitutto con sé stesso e i suoi fantasmi. Ma se nella tragedia non vince nessuno, tutto si fa problematico e l’uomo non sfugge alla colpa agendo con giustizia e verità, essa lo mostra però nella sua grandezza, al di là del bene e del male.
Le labbra strette e il volto tirato di Dixon dicono questo, i suoi fantasmi non basterà l’amore a diradarli, ma c’è una sorta di promessa, forse in un altro mondo, chissà. Lo dichiara il contrasto forte fra il suo viso e quello di Morgan, che Preminger sottolinea con un gioco sapiente di luci e ombre, i piani levigati, purissimi del volto di lei, le angolature spigolose su Dixon.
Provvidenzialmente una donna-angelo spunta quasi sempre in maniera opportuna a far dimenticare per un po’ quell’orizzonte vastissimo che Preminger sottende con raffinata regia alle spalle dei suoi eroi.
La seconda guerra mondiale (il morto che non doveva morire ha combattuto per la Patria) la crisi morale, sociale ed economica del dopoguerra, (gangsters e bische clandestine, interni di locali fumosi e malfamati, bagni turchi dove è più facile venir massacrati da facce da ring che godere dei benefìci di vaporose saune, anziani malandati con la pensione al minimo e ragazze pronte a sfiorire prima ancora di diventar vecchie) esterni sulla città tentacolare dallo sviluppo edilizio abnorme e dal traffico caotico (un treno in scorrimento in campo lungo su rotaia sopraelevata sembra guardare come l’occhio di Dio il nostro Dixon che ha fermato la macchina nello scalo portuale sottostante per smaltire il cadavere di cui deve assolutamente liberarsi).
Niente che ti salvi dalle macchine che sfrecciano “dove i marciapiedi finiscono”, nessuna grondaia che ti ripari dalla pioggia, le tue vecchie scarpe faranno cick ciack nelle pozzanghere e solo nero e freddo ti aspettano, solitudine quando va bene, un cazzotto sul mento se a qualcuno fa gola il tuo orologio.
Quando la città dorme.
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