Regia di Satyajit Ray vedi scheda film
La solitudine di una divinità.
Arindam Mukherjee, il più popolare attore del cinema indiano, è in viaggio in treno per ritirare un premio. Questo lungo viaggio di ventiquattro ore, grazie al fortuito incontro con la giovanissima (e bellissima) giornalista Aditi, diventa occasione per ripensare agli errori della sua vita e per dare un volto ai fantasmi che lo affliggono. Il successo e i soldi non sono sufficienti a colmare il vuoto della sua anima, ma Aditi è l'unica a rendersene conto e a darsi la briga di indagare sul malessere nascosto dell'Eroe (in lingua hindi, Nayak), spingendolo a raccontarle del suo passato e dei suoi incubi.
Il tema della crisi di senso dell'uomo di successo è stato spesso abusato a sproposito. Tema di sicura presa, ma di non facile resa. Ci sono diversi buoni motivi per cui Nayak è un film indimenticabile. Naturalmente, sopra tutto quanto, l'interpretazione del protagonista, l'attore Uttam Kumar, magari non notissimo alle nostre latitudini, ma letteralmente una divinità in India. Kumar, malinconico anche nella spacconeria, finanche timido sotto quella maschera d'arroganza, interpreta praticamente se stesso in una stagione della sua vita. Il cinema, luogo dell'artefazione e della falsificazione, diventa al tempo stesso il luogo in cui dare una faccia e un volto al proprio demone, pur senza fornire i mezzi per sconfiggerlo.
Satyajit Ray risolve brillantemente il problema connaturato a questo genere di film, ovvero il finale banale o insoddisfacente, consolatorio e sdolcinato. L'esperienza intensa di quelle 24 ore non conduce ad una soluzione irrealistica del problema: al termine del viaggio, la ragazza distrugge l'intervista fatta a Arindam, volendo preservare la sua immagine di Eroe. Probabilmente non lo rivedrà mai più: l'esperienza di quella giornata rimarrà unica, e se Arindam/Kumar vorrà sconfiggere il suo male, dovrà farlo nel seguito, a macchina da presa spenta. Nel bellissimo fotogramma finale, vediamo Arindam, sceso dal treno e assediato dalla consueta torma di ammiratori, sfoderare il suo bianchissimo sorriso, carico ancora una volta di una mestizia irrisolta.
Nayak ha anche sequenze di eccelsa visionarietà (in una di queste, Arindam affonda in un deserto di banconote, con il suo antico maestro di teatro, con il corpo in disfacimento, che non può salvarlo), e la mente corre inevitabilmente a 8½. Ma mentre in 8½ le visioni forniscono un'opzione d'escapismo a Mastroianni per evadere dal vuoto d'idee del suo lavoro e della sua vita, in Nayak sono gli unici momenti di realtà per il protagonista, i soli in cui Arindam non ha i suoi soldi e la sua popolarità a trarlo d'impaccio dalle sabbie mobili. E Arindam/Kumar, pur nella sua ostentata vanagloria, pur con tutti i suoi premi, le sue donne, i suoi contratti a dieci zeri, i suoi titoloni sui giornali, le sue effigi, le sue locandine mastodontiche, ci appare vicinissimo e realissimo, in quelle parentesi oniriche, nella sua desolante solitudine.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta