Regia di Carlo Carunchio vedi scheda film
Scritto nel 1958, D’amore si muore rappresenta la prima collaborazione di Peppino Patroni Griffi con gli attori della mitica Compagnia dei Giovani (Giorgio De Lullo, Romolo Valli, Rossella Falk, Elsa Albani, Annamaria Guarnieri, Umberto Orsini, Ferruccio De Ceresa) e va letta proprio considerando questa particolarissima relazione tra il drammaturgo che scrive appositamente per i teatranti in virtù della loro amicizia. Superato nel 1966 da Metti, una sera a cena, grande successo anche grazie ad una non memorabile ma seducente versione cinematografica diretta dallo stesso autore, il testo viene recuperato all’inizio degli anni settanta in piena post-contestazione e sulla scia dei pruriti sessuali dell’epoca. Come il precedente gioco al massacro, D’amore si muore racconta l’incontro tra la matura borghesia pigra dai nomi altisonanti e il giovane sottobosco artistico di chi non mette insieme il pranzo con la cena, nell’occasione della morte del trait d’union tra i due mondi: amici e amanti vari (il capofila è Paolo Graziosi) accorrono a casa di Renato (Lino Capolicchio), piccolo scrittore suicida, per ricostruire emotivamente gli ultimi fuochi della sua esistenza, individuando la causa dell’insano ed atteso gesto nel tormentato amore per la ricca industriale Elena Davidson (eterea, algida, malinconica, divistica Silvana Mangano).
La figura del puzzle, con i pezzi delle foto della colpevole Mangano da ricomporre per giungere ad una specie di verità, s’accorda bene con l’idea del film, strutturato con un’alternanza tra presente e passato in cui fluttuano personaggi interessati all’esercizio del dolore anche sotto la patina della distrazione e dell’autodistruzione, reso fluido dal profluvio di chiacchiere spesso apparentemente inconsistenti che inondano i dialoghi della commedia. Melodramma forse intellettualistico a cui dona il ritmo il montaggio non lineare di Franco Arcalli, diretto dall’oscuro e poco perito Carlo Carunchio ma assistito da un reparto tecnico d’altissimo livello (luminosa fotografia di Gabor Pogany, costumi assurdi di Gabriella Pescucci compresi un maglione natalizio e una vestaglia orientaleggiante, musiche accattivanti di Ennio Morricone), è tuttavia un mediocre esempio di erotismo romantico con un suo incomprensibile fascino determinato da una recitazione stilizzata o ridicola che ha il suo apice nell’enfasi di Milva che, impegnata sul set di un porno con Luc Merenda, lascia cadere le mutandine da una ruota panoramica.
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