Regia di Fabrice Du Welz vedi scheda film
Liberamente tratto da una storia vera: è questo uno degli alibi cui, specie negli ultimi anni, produttori e registi con la fantasia sotto i tacchi ricorrono per propinare al pubblico film di rara pochezza, nei quali gli elementi di "verità" si perdono tra un mare di amenità spesso anche mal assortite. Si pensi ad un obbrobrio del calibro di The Esorcism of Emily Rose dello statunitense Scott Derrickson, che nel 2005 fornì la versione cattolicamente storpiata del martirio patito negli anni '70 da Annaleise Michel (cui fortunatamente rese giustizia, l'anno successivo, il tedesco Hans-Christian Schmid con Requiem), o al sopravvalutato (da molti) Wolf Creek dell'australiano Greg McLean, che, sempre nel 2005, prese spunto dagli omicidi in serie compiuti una decina d'anni prima da Ivan Milat per mettere in scena la solita mattanza del solito gruppetto di giovanotti ad encefalogramma piatto.
In quella che, a ragionarci un po' su, potrebbe trasformarsi in una lista infinita, si inserisce a pieno titolo Alléluia, ultima fatica (si fa per dire) del belga Fabrice du Welz, che asserisce d'essersi ispirato ad una vicenda peraltro inflazionata, in quanto già oggetto in precedenza di ben quattro trasposizioni cinematografiche e di una serie televisiva: quella dei cosiddetti "Lonely Hearts Killers", al secolo Raymond Fernandez e Martha Beck, responsabili, alla fine degli anni '40, della morte violenta di una ventina di donne; una vicenda che, alla luce delle molte informazioni comodamente reperibili al riguardo, risulta richiamata nel canovaccio ma sviluppata in maniera a dir poco approssimativa per dar vita ad un thriller senza capo né coda, ripetitivo nella struttura, schematico nel tratteggio dei personaggi e del tutto privo del benché minimo cambio di passo.
Spostando l'azione presumibilmente attorno ai primi anni '90, Alléluia prende le mosse dall'incontro tra i due, ribattezzati Michel e Gloria, favorito da un'amica di lei, che glielo combina a tradimento rispondendo in sua vece ad un annuncio inserito dall'altro su un sito di incontri: lui è un forzato del sesso con il pallino della magia nera, che si guadagna da vivere seducendo tardone per poi spillargli via i soldi, lei lavora in un obitorio, dove riempie le giornate lucidando cadaveri e rimettendoli a nuovo; lui è pressoché solo da sempre e ha qualche rotella fuori posto per colpa di una trave che a sedici anni rischiò di sfondargli la testa, lei è madre di una ragazzina di circa cinque anni il cui padre non si sa bene che fine abbia fatto.
Una volta trovatisi, non si lasciano più; o meglio: lui - forse - la lascerebbe pure, ma lei gli si attacca come una cozza a uno scoglio, finendo per proporglisi come lo zerbino in pelle umana che presenterà in qualità di propria sorella ad ogni nuova vittima designata.
Morbosamente attratta dal suo fare deciso e totalmente presa da quella che percepisce come una grande storia d'amore, Gloria molla in quattro e quattr'otto l'amatissima figlia all'amica di cui sopra e sparisce con lui. Ma il sodalizio criminale, nato per vuotare le tasche di donne sole e facoltose, porta come effetto collaterale anche lo svuotamento delle loro viscere, dal momento che l'incapacità ad accettare l'esuberanza sessuale di Michel ed il proprio ruolo meramente accessorio portano Gloria a scenate di gelosia furibonde che si concludono col massacro sistematico della terza danarosa incomoda di turno.
Se forse le parole, da sole, non bastano per rendere appieno la vacuità del racconto, di certo - una volta assistito a cotanto scempio - non occorre particolare perspicacia per comprendere quanto l'intera operazione sia gratuita, velleitaria e reticente, essendo riusciti, du Welz e i collaboratori Romain Protat e Vincent Tavier, nell'ardua impresa di impegnarsi in tre per tirar fuori una sceneggiatura e dei dialoghi di dilettantesca piattezza, incapaci di dar corpo alla cattiveria che si vorrebbe sottolineata dagli sguardi allucinati e torvi di Michel (Laurent Lucas), alla follia che si vorrebbe suggerita da ogni scelta dissennata di Gloria (Lola Dueñas), all'atmosfera malsana cui la fotografia rumorosa e buia di Manuel Dacosse vorrebbe rimandare, e al senso di concitazione e claustrofobia che si vorrebbe delegare ai molteplici primi e primissimi piani e all'uso frenetico e smodato della camera a mano. Ed è così che, tra sequenze pseudo-surreali appiccicate con lo sputo (la danza attorno al fuoco dei due amanti) e rovinosi smottamenti verso il comico involontario (quella in cui la protagonista intona un canto sulle note dello score prima di fare a pezzetti una delle vittime resterà tra le scene "scult" dell'anno), gli atteggiamenti e le gesta dei due protagonisti impiegano pochi minuti per apparire nulla più che ridicoli, mentre la tremarella del cameraman, le zoomate sui pori della pelle, e la grana grossa delle riprese sottoesposte in 16mm, sortiscono come unica conseguenza di render chiaro e inequivocabile il sapore rivoltante della provocazione fine a sé stessa.
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