Confesso che è complicato parlare di questo film. Al di là del turbamento, spinte opposte si muovono tra la mia pancia e il mio cervello sulla via del ritorno a casa dopo la visione.
Sicura che verranno sprecati fiumi di parole, anzi, di frasi fatte per raccontarlo come un 'secchio d'acqua gelata', un 'pugno nello stomaco' o 'uno schiaffo in piena faccia', sorrido, rifletto e un po' mi rattristo. The tribe non è niente di tutto ciò. La crudezza che lo caratterizza non è inaspettata né a ciel sereno, e viene anzi dichiarata dalle prime scene, senza falsi pudori, senza timore e soprattutto senza mai coccolare lo spettatore. Anche il crescendo è dichiarato e pronunciato a chiare lettere. Certo, è singolare e forse anche irriverente parlare di lettere pronunciate, considerato il presupposto del film. Ma per fortuna qui di buonismo neanche l'ombra.
Un ragazzo arriva in una scuola, un collegio per sordomuti, ed è subito attirato (parrebbe suo malgrado, ma in realtà non importa molto ai fini della storia) dal gruppetto, dalla tribe, dalla gang di ragazzi che dominano i traffici illeciti della scuola (con tanto di insegnanti conniventi). Catapultato subito in una realtà di spaccio, furti e prostituzione, il ragazzo non fa una piega, si presta e si adegua alle regole imposte, entra (poco) in confidenza con gli elementi del gruppo e si avvicina solo a una delle due ragazze che si prostituiscono. In un crescendo di degradazione e violenza.
Due correnti mi si agitano dentro. Nella prima mezz'ora mi attraversa la testa una sola parola, ripetuta, martellante, che racchiude tutto lo stupore generato da ciò che vedo: fenomenale. Non una parola a caso: il fenomeno è da quel greco φαινω (faino) che vuol dire apparire o mostrare. Dalla prima scena all'ultima, tutto è mostrato senza remore e senza segreti, e in quella mia parola c'è anche, volendo, un giudizio di qualità determinato dall'uso nella lingua corrente, ma è più forte per me la percezione violenta dell'intenzione di mostrare, di non sottrarre allo sguardo. Senza ostentazione, senza un facile e ruffiano uso dell'effetto, per pura e semplice trasparenza. Bastano pochi minuti, appena il ragazzo nuovo prende posto nella classe in mezzo agli altri, per capire chi è il bullo della situazione, chi è la croce dell'insegnante, e per seguire quasi interamente lo scambio tra i due, i toni che si alzano, la campanella che salva la situazione ponendo fine a una tipica tensione tra alunno e insegnante. Dai piccoli dispetti di classe di Truffaut alle gang del Bronx, abbiamo sempre visto queste meccaniche, le conoscono bene anche gli spettatori meno esperti. Eppure vederle addosso a dei ragazzi che altrimenti percepiremmo come deboli è qualcosa a cui non è preparato nemmeno uno spettatore più scafato.
Fenomenale. Come sottolineato dalla presentazione, lo spettatore non è preparato a una visione del genere: a memoria, nessun regista ha mai osato sottoporre il proprio pubblico a un simile esperimento. Un film 'normale' (certo, per quanto possa essere normale considerato il carattere estremo della storia di questa banda di ragazzi ai margini della società) con l'unico piccolo particolare di essere girato esclusivamente da sordomuti. Ma si parla di margini della società per la delinquenza, non per la menomazione fisica, come si diceva sopra. Un film normale e crudo nonostante il presupposto non normale. Un film senza sottotitoli, parti parlate, spiegazioni. Non perché muto, non perché privo di dialoghi, no. Solo privo di traduzione per lo spettatore 'standard' che non conosce il linguaggio dei segni. Il film è parlatissimo, ma apparentemente inaccessibile. Seguire un battibecco tra alunno e insegnante senza capire i particolari ma rimanendo perfettamente in grado di comprendere il significato di ciascuna battuta è qualcosa che all'inizio sembra inquietante, poi si trasforma in emozione per la scoperta, e infine diventa ammirazione per il linguaggio cinematografico usato.
La capacità dunque del regista semiesordiente di affrontare una storia permettendo a chiunque di seguirne lo svolgimento è quello che mi ossessiona per tutta la prima parte del film. La parte estasiata, quella che gridava fenomenale, è affascinata dalla capacità di far capire la successione degli eventi senza bisogno di spiegare davvero tutto, di tradurre ogni singola parola o dialogo. La granularità di ogni singola conversazione è davvero così importante? La comprensione delle finezze forse? No, assolutamente. E la scelta è vincente. Dopo l'iniziale stordimento, l'istinto primordiale dell'essere umano viene fuori, e lo spettatore comincia a comprendere, per la sua naturale, umana attitudine a interpretare i volti, le espressioni, i gesti del corpo (non quelli del linguaggio dei segni, intendo). Ma non solo: un altro istinto naturale dell'essere umano è quello legato all'imitazione del segno, del gesto. I bambini cominciano a imitare da quando imparano a guardare gli adulti. E per quanto i ragazzi parlino ovviamente una lingua straniera, i loro gesti col tempo diventano familiari e cominciano in minima parta ad acquisire significato, probabilmente più di quanto non accadrebbe se pronunciassero parole in un'altra lingua (d'altronde, le lingue straniere si imparano così: ascoltandole, prima che studiandole sulla carta).
Lo spettatore è spiazzato, magari inizialmente infastidito e sicuramente allo sbando e disorientato, in questo mondo in cui viene catapultato, lui, da estraneo fuori posto. E tale rimane per tutto il film, perché la storia dei personaggi rende per giunta impossibile empatizzare e quindi entrare un minimo in sintonia. Se si aggiunge che la menomazione fisica è volutamente esclusa e dimenticata, come elemento di attrazione e (per fortuna!) compassione, si capisce come l'esperienza di questo film si presti a interpretazioni contrastanti. Man mano che comincia a comprendere gli elementi inizialmente negati, si fa avanti la certezza che non dipenda da quel 'buco' la sensazione di disagio. Ma dal sommarsi di una storia di delinquenza a un background che se ne riterrebbe istintivamente immune. La più forte dichiarazione di normalità della menomazione sta nell'estenderla a tutte le sfumature dell'essere umano, 'buono' o 'cattivo' che sia.
Ma a metà film comincia a farsi strada dentro di me una seconda sensazione, una seconda corrente: comincio a dubitare del senso di tutto ciò che vedo. Tolta la scommessa, tolta quella che potrebbe anche essere considerata una provocazione, di privare lo spettatore della culla rassicurante che rappresenterebbero dei sottotitoli, tolto l'elemento della menomazione fisica, non rimane"solo" (si fa per dire) un film su una banda di ragazzi delinquenti e degradati? Non diventa un film tutto sommato normale? Non potrebbe addirittura essere una provocazione inutile, un trucco per ingannare la percezione della normalità nello spettatore?
Mi vengono in mente esempi simili: Memento sarebbe stato così particolare se avesse rinunciato al montaggio in linea non cronologica? Il personaggio e la sua malattia, ok, ma la storia non sarebbe stata forse banale? E volendo estendere, perché non tirare in ballo anche tutti quei film incentrati su tematiche così lontane dal quotidiano e dal mondo che ci circonda, da rendere necessarie premesse, spiegazioni, approfondimenti sulla realtà descritta? Ovvero, tanto per dirne una: quanto del cinema straniero, poniamo giapponese o coreano, ci affascina per le qualità cinematografiche e quanto influiscono sulla nostra percezione occidentale le differenze di mentalità e cultura?
Ma non voglio disperdermi: solo, mi preme sottolineare che anche in questo film come in tutti quelli un po' lontani da quello a cui il quotidiano ci ha abituato, una forte componente del fascino / repulsione è rappresentata dall'avvicinamento al diverso, qualsiasi esso sia: sordomuto o delinquente. E visto che si sommano, il risultato è due volte causa di smarrimento.
Da questa considerazione ne discende un'altra, che è quella che mi lascia perplessa per la seconda metà del film. Quello che all'inizio mi sembrava essere una capacità di porre l'accento su altri linguaggi diversi dalla parola, e quindi un aver trovato il modo giusto per tirare fuori gli elementi davvero salienti di una narrazione, viene un po' smitizzato dall'illuminazione che tante scene e tanti ruoli sono tipici. L'atteggiamento inizialmente rappresentato dal duro sforzo interpretativo dello spettatore, quello sguardo sempre teso a scrutare ogni possibile elemento 'parlante', a indagare la realtà altrimenti invisibile, pian piano si affievolisce e viene sostituito tutto o in parte dalla sovrapposizione di schemi e ruoli istintivamente noti, grazie ai quali l'urgenza di comprensione totale cessa di esistere. Il capobanda che punisce il ragazzino perché sospettato di aver rubato inveisce e lo fa picchiare dal ragazzo nuovo, ed è una scena che ci attendiamo perché abbiamo visto molte, troppe altre volte in film del genere quella sequenza di eventi e quell'elemento narrativo. Cos'è, allora, che ci spiega cosa accade nel film? Come si mescolano interpretazione delle immagini e sovrapposizione con materiale ripescato dalla memoria individuale e personale di spettatore? Ma soprattutto: è un risultato cercato dal regista come escamotage per scavalcare il dialogo minuto oppure, al contrario, è il rischio che ha corso (e che forse non gli rende giustizia) sottoponendosi a questo esperimento di regia?
Ma il risultato è troppo singolare per ridurlo a un mero esercizio un po' furbetto teso a stupire lo spettatore. E il lavoro fatto sul suono, soprattutto nell'ultimo terzo del film, è l'elemento definitivo e sconvolgente. Non le scene di violenza, non le scene di sesso.
Il suono.
Il suono negato a tutti i protagonisti del film smette finalmente di essere elemento invisibile e di contorno. O meglio, di contorno puro e semplice non lo è stato mai, perché ha sempre avuto un risalto particolare per tutto il film. Ma improvvisamente diventa il centro gravitazionale delle immagini. Diventa insostenibile, accecante, insopportabile. Non è mia abitudine raccontare nel dettaglio intere sequenze di film, ma questa purtroppo è impossibile da tralasciare per scrivere la mia opinione.
È la sequenza dell'aborto clandestino della ragazza che si prostituisce. Un parallelo con un film preesistente, finalmente, mi viene in mente, perché anche se non c'è lo stesso presupposto del film girato da sordomuti, c'è però l'elemento di assenza totale di dialoghi, ovvero di dialoghi accessibili. Che rende quindi indispensabile prelevare gli elementi utili altrove. Pensarla è un attimo: Ferro 3 faceva qualcosa di simile. Quando all'inizio del film il protagonista entrava nelle case e lo spettatore pensava si trattasse di un ladro, Kim Ki-Duk subito lo mostrava accanto a oggetti di valore, che puntualmente ignorava. Quando lo si immaginava muto, lo mostrava nell'atto di rispondere al telefono, e così via. Il meccanismo si ripeteva di continuo, e le risposte arrivavano dal puro linguaggio cinematografico. Nonostante questo bisogno di spiegazioni sia costante nell'arco di tutto il film, è in questa sequenza che diventa insostenibile, e l'assenza di elementi descrittivi definitivamente crudele.
La sequenza è anticipata da una lunga e violenta lite tra le due ragazze, che sono sempre apparse anche amiche oltre che compagne di scuola e di lavoro. Della veemenza di questa lite non si capisce bene il motivo: l'ipotesi è che sia legata alla relazione (se la si può chiamare così) della bionda con il ragazzo nuovo, ma ciò non basta a spiegare la lunghezza e l'apparente preoccupazione della ragazza bruna. La bionda è appena tornata da un incontro con il ragazzo, si sveste e si riveste in modo diverso, raccoglie borsa e soldi e esce di nuovo.
A questo punto comincia a entrare il suono in un modo diverso, in un modo che non è solo ambientale.
La ragazza si reca in un appartamento privato, e suona il campanello. Il campanello si sente (finora tutti i campanelli erano quelli 'trasformati' in lampadina, come la sirena di fine lezione). L'appartamento è privato e non abitato da un sordo. Apre la porta una donna dall'atteggiamento duro, in vestaglia, non particolarmente contenta di vedere la ragazza: che sia la madre? Niente lo contraddice, le congetture proseguono. Non si scambiano gesti d'affetto.
La ragazza si siede al tavolo di cucina e appoggia la borsa, da cui tira fuori dei soldi che lascia alla donna. Nemmeno questo contraddice ancora l'ipotesi che sia la madre: siamo pronti a tutto, potrebbe essere la madre nullafacente che campa dei soldi della prostituzione della figlia. La donna le rivolge qualche parola nel linguaggio dei sordomuti, poi le fa segno di spogliarsi e la ragazza si toglie il giubbotto e si allontana. Non la vediamo più, non sappiamo dove è andata.
La donna, rimasta in cucina, svogliatamente e sgarbatamente (sempre con la sigaretta in mano) prende degli attrezzi, dei contenitori di metallo, degli strofinacci. Mette sul fuoco il contenitore di metallo, strano, rettangolare, chiuso da un coperchio (attrezzi da sterilizzare o riscaldare), e si dirige sul balcone retrostante a tirar dentro... degli asciugamani? No, una corda. A cosa potrà mai servire una corda.
Solo allora entra in bagno: la ragazza è nella vasca da bagno, nuda dalla vita in giù e seduta su una tavola di legno appoggiata sulla vasca, come quelle che servono per lavare i panni o aiutare le persone anziane a sollevarsi.
La corda è tesa tra le mani della donna, un cappio a ciascuna estremità. In un gesto brusco, ogni cappio va su un piede della ragazza facendo passare la corda dietro al collo. Così le gambe sono in posizione ginecologica, e a noi è celata la vista della sua nudità (peraltro mostrata in altri momenti).
Non una parola di spiegazione alla ragazza, non un cenno di comprensione e empatia. Dopo aver recuperato in cucina il contenitore di metallo, lo schifo totale nel gesto di lavarsi le mani, sciacquandole senza sapone e asciugandole su uno strofinaccio lurido che era già appeso al muro.
Di botto si ricongiungono tutti i fili, a partire dal litigio, di cui ora si spiega la violenza. Non abbiamo il tempo di pensare, esattamente come la ragazza. La donna agisce con tutta l'indifferenza possibile di chi ha compiuto questa operazione mille volte.
Infila dei guanti di lattice, spalanca le gambe alla ragazza. Comincia a infilare uno, due, tre attrezzi, divarica, tira, tende, ne lascia alcuni in ostaggio alla ragazza mentre traffica.
Infila e toglie, aggiunge, preme. Con l'ultimo tremendo strumento finalmente raschia.
Di ogni strumento infilati nel corpo vediamo sempre metà, ma poi cominciamo a sentire il suono. Con l'ultimo attrezzo, la donna spinge e tira indietro, arriva a fondo, preme, gratta, struscia contro le pareti interne. Noi questo lo sentiamo. Lo vediamo ripetersi e lo sentiamo cadenzarsi. E soprattutto la ragazza piange, grida, si lamenta.
Inaffrontabile, un tempo infinito sovrappone a ogni affondo un singhiozzo. Ogni raschiata un pianto e un lamento.
Pochi secondi, forse meno di due minuti, due minuti di rumore violento dell'attrezzo che va su e giù, dentro e fuori e quando è dentro fa rumore toccando il corpo. E la voce della ragazza si somma al rumore.
Come un terremoto la cui scansione temporale è percepita in modo dilatato, prolungato, irreale, il rumore e la voce sincronizzati martellano lo spettatore, la mano della donna avanza e indietreggia, preme e torna indietro.
La voce straziante della ragazza, udita per la prima e ultima volta in tutto il film, arriva direttamente al cervello e alla pancia dello spettatore. Un minuto, forse due, che non smettono mai, esattamente come un terremoto: gli uomini in sala si contorcono, le donne sospirano, il mio cuore batte all'impazzata nel tentativo di resistere alle immagini ma soprattutto al suono e alla voce, che sarebbe stato preferibile continuare a non sentire, perché quando si fa sentire è segno che non ne può fare a meno.
Devastante.
Dopo questo minuto di tortura, la donna depone le armi e compie l'ultimo gesto, che violenta definitivamente noi e la ragazza. Sfila la corda da uno solo dei due piedi, lasciandola cadere addosso alla ragazza, che si richiude in posizione fetale e per non strozzarsi deve liberare anche il secondo piede. Se l'aborto era stato brutale, l'abbandono nell'indifferenza lo è mortalmente di più.
Ripresosi da questa scena, il pubblico a quel punto è definitivamente catapultato nell'accelerata finale, non altrettanto traumatica ma comunque violenta. Qualche altro momento di batticuore domina la fine del film, ma è necessario alla storia. Ho solo il tempo di girare e rendermi conto che c'era un gruppo di sordomuti in sala. Mi chiedo che film abbiano visto loro, e se la potenza che ha avuto su noi spettatori dotati di udito si mantenga anche per loro, o hanno solo visto un film molto crudo su una banda di adolescenti devastati. Mi alzo, esco in strada, e cerco di non ascoltare alcun rumore.
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