Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film
Crapuloni gonfi, satolli, insaziabili: famelici senza fame.
Denis Villeneuve - il futuro regista di “Polytechnique”, “Incendies”, “Enemy”, “Prisoners”, “Sicario”, “Arrival” e “BR49” (e “Dune”) - ritorna dietro alla macchina da presa del cinema-cinema con "Next Floor", un cortometraggio di 11 minuti (soggetto e produzione: Phoebe Greenberg; sceneggiatura: Jacques Davidts; fotografia: Nicolas Bolduc; montaggio: Sophie Leblond; musiche: Warren "Slim" Williams), dopo una pausa durata 8 anni (in pratica ha lasciato che le Twin Towers del World Trade Center di Manhattan, N.Y., erano ancora in piedi contro il cielo, e ha ripreso giusto in tempo per assistere all'elezione del primo presidente statunitense afroamericano; e sì, lo so che il nostro è canadese, ma in Canada nel frattempo non è successo altro che un belino di niente) e, dopo il dittico sugli incidenti che ti cambiano la vita composto da “Un 32 Août sur Terre” e “Maelström”, affronta a modo suo la fenomenologia del disastro (James Ballard, P.K.Dick, Marco Ferreri, J.P.Jeunet & M.Caro) e la narrazione del massacro (i safari tra le umane genti di László Krasznahorkai e Béla Tarr, Michael Haneke, Ulrich Seidl, Yorgos Lanthimos), ed entrambe (Luis Buñuel, Peter Greenaway, Lars Von Trier), ma soprattutto è l'allegorico territorio felliniano (paradossalmente scevro da particolareggianti indugi significanti sulle cavità orali in masticazione cari a, in modo divergente, Sergio Leone e Abdellatif Kechiche) quello invaso, calpestato, riprodotto, riciclato: “E la Nave Va” ('83) e “Prova d'Orchestra” ('79) sono non certo solo figurativamente ma soprattutto attraverso la loro materica essenza le opere con cui si ritrova a dialogare a distanza di tempo e spazio: gli stessi, i soliti, i nostri.
La metafora è pedissequa, ostentata, ridondante, furibonda.
Il prossimo piano. La prossima portata.
Non ci resta che scavare (e non c'è prolunga sufficientement'estesa, lung'abbastanza).
Schiantatisi gli ospiti partecipanti al conviviale banchetto, attoniti i domestici camerieri e i valletti servitori così come i musici: close up sullo sguardo (entrambi gli occhi, poi uno solo) del Maître d' (Jean Marchand): non ne vediamo la bocca, non ne scorgiamo altro che un occhio e uno zigomo, ma, grazie all'involontaria interazione collegamentizia dei muscoli mimici facciali, lo sappiamo: sorride.
E anche noi lo abbiamo fatto, sino a quel momento.
* * * ¾ - 7 ½
Postilla (dawkinsiana).
Commento alla fine (quella rimediabile: il film di Villeneuve viaggia, alla lunga distanza, su scala universale, lungo due rette parallele, e nel breve periodo a effimero termine, su scala umana, lungo due rette ortogonali) del mondo/vita/cosmo/esistenza: immaginate un giardino con al centro un laghetto artificiale naturalizzato. Un giorno ci casca dentro un seme di giglio d'acqua, una selvatica semi-infestante, ed entro 30 giorni lo specchio d'acqua sarà completamente ricoperto dalla vegetazione e l'eutrofizzazione completa: niente più luce e niente più ossigeno, niente più nulla. Ecco, se vi dovessi chiedere in quale giorno dei trenta il laghetto si verrà a trovare ricoperto per metà, e quindi si potrebbe anche pensare che ci sia ancora del tempo perché si possa porre rimedio alla faccenda, voi rispondereste...
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