Regia di Michael Chapman vedi scheda film
Avventura primordiale di complicata attuazione che vede come assoluta protagonista Daryl Hannah, (relativamente) fresca del successo di “Splash, una sirena a Manhattan” (1984).
Si fa sul serio (prima di vederlo pensavo che i toni fossero più leggeri), ma rimane un titolo che non colpisce come con ogni probabilità era nelle intenzioni originali.
Dopo un evento naturale, la piccola Ayla (in seguito interpretata da Daryl Hannah), si ritrova sola al mondo e viene salvata da una tribù di uomini delle caverne.
I suoi geni sono molto più evoluti e viene malvista, tanto più quando, una volta cresciuta, manifesta capacità superiori che la portano ad infrangere delle regole del clan.
Acquisirà la consapevolezza per affrontare le (tante) sfide che l’aspettano.
Volendo ben vedere si tratta del classico film che propone un percorso di maturazione individuale irto di ostacoli, ma l’ambientazione preistorica fornisce comunque elementi di supporto che segnano un passo comunque personale.
Chiaro che si parte dalla difficoltà nell’accettare lo straniero, o più banalmente il diverso, inspessita dal fatto che si parla di tribù primordiali vincolate alle proprie usanze ed a ruoli predisposti per ciascuno
Un scelta coraggiosa è quella di non utilizzare dialoghi capibili preferendo una comunicazione gestuale accompagnata da versi, con la voce over che fa, per forza di cose, da raccordo agli scatti principali degli eventi
Un altro (possibile) merito è quello di non ricercare particolari echi, si compie costantemente lo sforzo di seguire una propria direzione senza eccessive enfatizzazioni a parte poche scene chiave, ad esempio un combattimento contro un orso risolto nel sangue con un’impennata di brutale ed arcaica violenza.
Ma se il principio della coerenza merita un sincero apprezzamento, è altrettanto vero (o probabile) che il film di Michael Chapman fatica ad elevarsi al di sopra di una generale accortezza figurativa, segnata da un’autorevole firma dello screenplay (John Sayles) e dalla fotografia (di Jan De Bont).
In più, o fondamentalmente, c’è Daryl Hannah in un periodo luminoso della sua carriera, che ha il compito di rendere evidente il suo personaggio (diciamo che già fisicamente questo è fin troppo palese) che ha un alone quasi mitologico chiamato ad affrontare sfide continue ed a trovare la sua strada anche al costo di scelte dolorose (ed alcune lo sono talmente da allontanare l’empatia del pubblico).
Insomma, gli aspetti positivi, o quanto meno invitanti, ci sono, ma qualcosa non funziona, forse a causa dell’ingenuità tipica degli anni ottanta (qui ci siamo proprio in mezzo), o forse semplicemente per una narrazione dal carattere improbabile (le difficoltà sono oggettive alle scelte di base), fatto sta che pare parecchio irrisolto (e non, almeno non solo, per come finisce).
Comunque particolare (se non altro) e talmente accantonato da destare curiosità.
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