Regia di Philip Yung vedi scheda film
May We Chat è un film hongkonghese del 2013, scritto e diretto da Philip Yung.
Attualemente è visibile su Netflix.
Sinossi: Tre giovani adolescenti, di estrazione sociale completamente opposta, si conoscono su di una chat telefonica che usano quotidianamente. Tutte e tre condividono uno stile di vita assolutamente sregolato, dal consumo di droghe alla prostituzione volontaria senza suscitare la minima preoccupazione dei loro famigliari, assenti oppure decaduti in un pozzo oscuro da cui è impossibile riemergere, e non parliamo delle istituzioni completamente assenti. In questo clima di totale annichilimento si aggiunge la scomparsa/rapimento di una di loro…
May we chat è il secondo lungometraggio dell’ex critico cinematografico Philip Yung che continua, dopo Glamorous Youth (2009), un suo personalissimo discorso incentrato sulle nuove generazioni hongkonghesi, rappresentate sotto una luce estremamente cupa. I suoi protagonisti (cosa in parte vista anche nel successivo Port of Call) sono giovani spaesati, cresciuti in ambienti familiari problematici e abbandonati letteralmente a loro stessi, schiacciati da una società consumista e arrivista come quella hongkonghese.
Philip Yung dunque è uno dei pochi a focalizzarsi su un cinema giovanile con toni seri e maturi, una sorta di risposta cantonese al seishun eiga (cinema giovanilistico) del nipponico Shunji Iwai.
Il regista presenta con estrema attenzione tre ragazze eterogenee, unite da una situazione familiare destabilizzante.
Wai Wai (Heidi Li) è la tipica adolescente costretta a crescere in fretta, badando addirittura a sua sorella minore; di suo padre non sappiamo nulla mentre la madre è una tossicodipendente perennemente a letto imbottita di droghe. La ragazza quindi gioco forza deve rimboccarsi le mani cercando aiuti a destra e sinistra ma mantenendo sempre una certa bussola morale.
Chiu Wai-ying (Rainky Way) spartisce con l’amica un destino simile; i suoi genitori l’hanno abbandonata da piccola ed è stata cresciuta dalla nonna; la ragazza tuttavia è sordomuta e non è mai riuscita ad integrarsi nella società a causa della sua diversità, sentendosi inadeguata ed incompresa talvolta pure da sua nonna che ignora il deficit della nipote.
Infine abbiamo Li Wing-yan (Kabby Hui), rampolla borghese. Subito dopo la sua nascita il padre si è materializzato nel nulla lasciando la madre in condizioni pessime, detto questo la donna sfruttando la sua bellezza e fascino è riuscita a sposarsi con un noto uomo d’affari garantendo alla figlia quella stabilità economia tanto agognata, tuttavia il patrigno non ha mai pienamente accettato la ragazza considerandola un intralcio alla sua relazione, provocando di conseguenza malessere e pena a Li Wing-yan.
A grandi linee il quadro di partenza è stato delineato, al quale bisogna aggiungere un altro fattore predominante: la città di Hong Kong. La megalopoli asiatica è un luogo dai mille volti, caratterizzata da vicoli angusti, quartieri periferici malfamati pieni zeppi di gangster, baracche pronte a crollare e grattacieli scintillanti extralusso.
Ed è proprio in un contesto così vario e frenetico che si articolano le vite delle nostre giovani protagoniste incessantemente attaccate al loro cellulare, una sorta di malsano baluardo contro le storture sociali: «Non facevamo altro che chattare e fare foto» così esclama una delle tre ragazze.
Interessante altresì notare l’atteggiamento del regista verso le loro azioni; certamente comprende le difficoltà in cui versano e allo stesso tempo è consapevole dell’ostruzionismo sociale nei loro confronti ma questa non è una scusante per comportarsi in modo folle e autodistruttivo; a tal proposito illuminante un duro confronto fra Chiu Wai-ying e Wai Wai, con quest’ultima che ha scoperto del lavoretto segreto dell’amica, ossia si prostituisce volontariamente e senza neanche un reale bisogno di soldi. Chiu Wai-ying probabilmente interpreta il sesso come un momento speciale in cui spera di sentirsi realmente apprezzata e non emarginata causa handicap, ma non sarà assolutamente così e Wai Wai la critica aspramente visto poi le conseguenze (l’incontro con tipi spregevoli e altamente pericolosi) evidenziandoli che non bisogna mai oltrepassare certi limiti altrimenti si finisce in un tunnel senza via d’uscita. Attenzione Wai Wai non è una santa però è in grado di sopravvivere il più “onestamente” possibile.
Di tanto in tanto il regista piazza oltretutto alcune frecciatine riferendosi a diverse problematiche sociali di Hong Kong, dal caro prezzo degli affitti al rapporto identitario alienante fra Cina ed Hong Kong, utilizzando una comicità satirica e scorretta alquanto gustosa.
May we chat propone inoltre una messa in scena assai particolare, partendo da una meta-cinema sperimentale che consiste nel mostrarci tramite flashback, in un bianco e nero sgranato, il passato di alcuni protagonisti. Fin qui nulla di nuovo ma Philip Yung piazza la genialata dell’anno poiché tali immagini appartengono in realtà ad una pellicola locale del 1982; si sta parlando di Lonely Fifteen, piccola perla della New Wave firmata da David Lai e misconosciuta dal pubblico giovanile.
Il meta-cinema prosegue ed il regista inserisce nella storia un vecchio boss delle triadi dal cuore d’oro, ormai senza potere e dedito alla protezione di alcune prostitute; l’uomo zoppica vistosamente e ricorda con nostalgia i tempi andati in cui lui ed i suoi amici si guardavano le spalle a vicenda evocando la figura leggendaria di Mark Gor di A Better Tomorrow (John Woo, 1986), capolavoro espressamente citato dallo stesso personaggio. In aggiunta sempre nella stessa scena viene menzionato un altro cult: Young and Dangerous (Andrew Lau, 1996).
L’elemento meta-cinematografico comunque non costituisce l’unica fonte d’interesse, infatti è possibile evidenziare almeno altri due tasselli molto importanti.
In primis Philip Yung nonostante diriga un film rivolto alle nuove generazioni non risparmia immagini agghiaccianti tra cui la rappresentazione di brutali stupri e pensiamo alla povera Chiu Wai-ying, violentata da un noto criminale; azione deplorevole ripresa interamente in slow-motion, davvero difficile da guardare.
In secondo luogo valido l’utilizzo della macchina a mano -ad inizio film- che serve a catapultarci di peso all’interno di un mondo giovanile destabilizzato, cupo e senza speranza dove l’unico obiettivo concreto è non soccombere.
Il film offre anche una specifica evoluzione narrativa.
La base è un solido teen-movie maturo e nichilista che si incanala presto nei meandri del thriller per poi sfociare nel gangster-movie, il tutto intervallato da un pizzico di ironia.
Struttura lodevole che però in alcuni frangenti non esibisce un perfetto bilanciamento e ad esempio la parte dedicata alla detection (ritrovare la ragazza) è abbastanza schematica e poco coinvolgente, distinta da una gestione temporale confusionaria.
Da rivedere inoltre uno spezzone comico -quando Wai Wai e Chiu Wai-ying si recano a casa di Li Wing-yan- troppo impregnato di un umorismo slapstick al punto da risultare decontestualizzato con l’atmosfera generale (il regista aggiunge effetti sonori e transizioni di montaggio fumettistici tecnicamente validi ma dissonanti con il contesto).
May we chat è un’opera complessivamente notevole, considerando soprattutto la tipologia di film.
Nota di merito al cast, giovanissimo ma perfettamente in grado di sostenere personaggi difficili e complessi; ovviamente complimenti al regista, famoso per la sua abilità nel riunire giovani promesse.
Voto: 7.5
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