Regia di Leander Haußmann vedi scheda film
La Germania prima e dopo il muro di Berlino, un percorso storico che diventa presto parallelo all’esistenza desolante e ripetitiva di Lehmann, Herr (signore) per gli amici che pure gli dànno del tu, così da innervosirlo tanto perché, d’altro canto, gli dànno del tu pur chiamandolo “signore”. La vita di Lehmann, responsabile al bancone o ad altri affari in un bar in centro città “ovest”, è sconvolta dall’ingresso in scena della cuoca di un locale, che dà inizio dunque a un nuovo percorso, per Lehmann, che passa dall’innamoramento per procedere verso quella che sembra essere la conferma della desolazione. Eppure qualche spiraglio si apre per Lehmann, pur nella bassezza del modo in cui questo avviene: le bevute con altri ubriaconi a lui vicini e l’appoggio del suo migliore amico (oltretutto probabile tossicodipendente). Ma l’occhio di Hausmann è tutto interessato e incentrato sul punto di vista con cui ha intenzione di raccontare la sua storia (tanto fedele al best seller omonimo che è impazzato in Germania tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000), permettendo totale empatia nei confronti del suo (a)normale protagonista ma non rendendo mai chiaro in che modo la storia possa considerarsi davvero storicamente contestualizzata se non nel mitico finale, in cui dopo gioie e rimpianti il popolo festeggia la caduta di quel muro che potrebbe essere anche correlativo oggettivo per intendere la scissione indefinita della personalità di Lehmann, piccolo omino che sembra alla ricerca di uno stimolo, anche del più infimo, per dare un senso alle sue giornate. È così che gli eventi minimi e meno importanti si caricano di grottesca importanza (la prima mitica sequenza con il cane sul marciapiede, altro compagno “ubriacone”), e i dialoghi tra lui e gli altri personaggi divengono quasi campi di allenamento per gli autori della sceneggiatura che, pur nell’andamento ispirato e accattivante di certe uscite, sembrano dare fin troppe occhiate a Woody Allen (tra discorsi di soggettività e oggettività e l’immancabile differenza fra l’amore e l’innamoramento uno si sente in un Amore e guerra ringiovanito e molto meno graffiante). Questo permette comunque ad Hausmann, che pure sembra saper fare il suo mestiere, di andare oltre la semplice commiedola e di evitare la narrazione lineare, ma di accumulare situazioni su situazioni che da un carattere prettamente episodico poi vanno delineandosi dando luce a un percorso che avrebbe avuto del banale se fosse stato più esplicitato, e che invece in questo modo, anche se non proprio interessante, assurge a un minimo decente di dignità filmica. Sebbene certi personaggi di contorno rischino il macchiettismo fine a se stesso, il film si lascia seguire pur nei suoi evidenti limiti (molto non si riesce a prendere sul serio, nonostante le ambizioni), e ha anche il coraggio di lasciare un sapore amarognolo in bocca subito dopo la conclusione, che affiancano la grande discontinuità storica della caduta del Muro alla piattezza rassegnata di Herr Lehmann, che insieme al cane passeggiano sui resti di un muro ormai abolito, il Muro della libertà e, in Herr Lehmann, della rassegnazione. Dunque, in toni contrastanti, il film di Hausmann si salva, anche solo per il cammeo della futura star Christoph Waltz, qui nei panni di un dottore simpatico e burlone.
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