VENEZIA 71. MOSTRA INTERNAZIONALE D'ARTE CINEMATOGRAFICA - ORIZZONTI
C'era una volta, in un paese sconosciuto e lontano, un Presidente....ovvero un dittatore assoluto a tutti gli effetti, che, furbo edin assoluta malafede, si trincea dietro la prima definizione per ostentare una apparente democrazia in cui nessuno dei suoi civili crede più né spera di poter vedere applicata nel proprio paese strmato dalla tirannia.
Esule e ramingo al pari dei suoi più illustri colleghi cineasti iraniani, Mohsen Makhmalbaf non rinuncia alla ispirazione neorealista che nell'ultimo trentennio ha caratterizzato le migliori produzioni del suo paese d'origine, devastato da tirannie che ne hanno praticamente annientato o comunque svilito gravemente la civilizzazione di quella che fu, col nome di Persia, una delle culle della cultura e dell'arte più rappresentative di ogni tempo.
Esule in Georgia, il gran cineasta ci racconta una favola, apologo sul potere assoluto vorace ed totalitario, che porta alla fame un popolo intero, soggiogato dai capricci di quello che, non senza sarcasmo, ama definirsi "presidente", nascondendo la maschera di dittatore che lo caratterizza a tutti gli effetti.
L'incipit del vecchio tiranno che dimostra al nipotino come gli sia sufficiente alzare la cornetta del telefono per oscurare l'intero centro cittadino che gli appare dinanzi dalla vetrata che sovrasta la casa regnante, è davvero notevole e promette scintille, magari anche di tipo ironico-comico.
Poi capiamo presto che un mutamento di stile da neorealistico a surreale sarebbe stato un passo troppo lungo, rivoluzionario ed impegnativo per un cineasta unico, intelligente e profondo, ma profondamente legato, come pregio ma pure limite, alla cultura e ai costumi del proprio paese. Motivo per cui Makhmalbaf propende per la favola più elementare e smaccata, e ci racconta di come il vecchio tiranno si ritrovi cacciato ed esule (pure lui come l'autore, grande ironia della sorte), costretto per orgoglio a restare nel proprio paese, ma cacciato e in fuga, travestito da pastore con al seguito l'unico erede rimasto, cioè il nipote di circa quattro anni, dopo che il figlio è rimasto vittima di un attentato da parte di una falange di ribelli e moglie e figlie sono volate all'estero un attimo prima della chiusura di tutti gli spazi aerei nei cieli sopra lo stato in rivolta.
Il tono della favola sceglie una metafora molto, forse troppo immediata e anche inevitabilmente un pò puerile che sarebbe ben accetta in un contesto iraniano, ma che risulta un pò troppo elementare ed esemplificativo non appena varcati i limiti e le frontiere, anche non volendo specificare il luogo in cui la vicenda si sviluppa.
Pur consci dei disagi e della triste storia che accomuna questo fantastico regista ad altri illustri conterranei come Kiarostami o, ancora peggio, il perseguitato Jafar Panahi, dobbiamo registrare che, almeno per i primi due, l'esilio forzato e la nuova realtà dei paesi che hanno, fortunatamente, dato loro asilo, finisce per forzare e snaturare il racconto, annacquandone la purezza dello stile del racconto che invece, con le originarie radici iraniane, manteneva vigore, linearità e quella credibilità da cinema neorealista assimilabile alla creatività e al candore della nostra epoca a cavallo tra le due guerre.
Il film comunque ha momenti di tensione e svolte narrative o situazioni ed inquadrature tutto fuorché banali, e si segue con una certa passione, allo stesso modo di certe favole ironiche e un pò fuori tempo che magari ora, da adulti eccessivamente smaliziati e un pò induriti di cuore, ci imbarazzano a tratti per puerilità e linearità del racconto, ma che in realtà in fondo ci appassionano sempre come ai tempi del candore dei ragazzini che fummo.
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