Regia di Mohsen Makhmalbaf vedi scheda film
The President di Mohsen Makhmalbaf vive del suo messaggio, evidente traino dell'intero film, storia "realistica" di un dittatore che fugge dal suo paese per evitare di essere linciato da un popolo stanco di vessazioni e miseria. Ed è un messaggio neanche troppo dissimulato dietro a un realismo di superficie che aspira a mettere in scena ciò che accade e nient'altro. Si potrebbe parlare di posizioni, di tentativi (magari sinceri) di essere ambigui, nella scelta di seguire la vicenda di un personaggio decisamente negativo con gli occhi del nipote di quest'ultimo, ovvero di colui che non guarda né può guardare a ciò che di negativo c'è nel nonno, dittatore più che biasimabile. Ma fin dall'inizio risulta evidente la posizione ostentatamente straniante che utilizza Makhmalbaf, la visione di un mondo (quello dorato di un palazzo reale, in un paese inventato e "sconosciuto", come pronuncia la didascalia iniziale) criticabile ma vicino, socialmente e affettivamente, al piccolo protagonista. Nonostante il regista voglia gestire con più pathos possibile una tensione che, se avesse funzionato, avrebbe creato un altro film completamente, il suo realismo è quanto di meno disinteressato si possa concepire, soprattutto se si analizza l'alto tasso di edificante che si respira nel suo lavoro.
Questo perché l'intento di Makhmalbaf è di far recepire allo spettatore come ciò contro cui il mondo della "democrazia" lotta sia da affrontare attraverso un nuovo punto di vista, più problematico e contrario al normale processo (pericolosissimo) dell'occhio per occhio. L'idea del regista è di rendere protagonista il normale antagonista, e di far ansimare lo spettatore per lui, seguendolo nelle sue vicissitudini e in quella graduale presa di consapevolezza che poi è la più classica delle leggi del contrappasso. Sta di fatto però che simile capovolgimento, oltre a non avere niente di nuovo né di emozionante, passa attraverso la più banale e scontata considerazione di tutto ciò che il cattivo uso del potere comporta: per farla breve, lo scoppio di una rivoluzione. Se da un lato, dunque, abbiamo il potere corrosivo e brutale di un dittatore disinteressato al bene del suo popolo (personaggio già scritto, evidente, sentito, o in qualunque film o in qualunque libro poco problematico di storia), dall'altro abbiamo la reazione uguale e/o contraria del popolo armato e pronto a decapitare/bruciare/linciare il responsabile delle proprie sciagure. Si parte da due motori profondamente schematici che nascono da un'evidente generalizzazione della Storia, ricondotta metaforicamente ai suoi essenziali: potere e popolo, crudeltà da un lato e dall'altro, cattiva interpretazione della democrazia, e quant'altro possa essere già evidente e già metabolizzato. D'altronde risulta chiara l'intenzione da parte di Makhmalbaf di realizzare un film spietatamente semplice, come si addice anche a certo cinema medioorientale, un film che dovrebbe scuotere e "svegliare" lo spettatore, per ricondurlo in una giusta strada che, si vedrà, sarà spiattellata neanche tanto implicitamente nel finale (un deus ex machina mostruosamente elementare, come l'intervento di un uomo del popolo "illuminato" e anticonformista); ma manca quello "stile della semplicità" che contraddistingue un primo Kiarostami, un Panahi, un Naderi (non sono riferimenti casuali: anch'essi hanno fatto cinema di crude e perturbanti asperità dal punto di vista dei bambini), quella maniera di filmare che trova stracci di poesia dal vuoto e dalla miseria. Invece, nella costante e piatta freddezza del suo sguardo, vuoto non per mancanza di (tentativi di) scene madri, ma per eccessiva adesione a una conseguenzialità narrativa risaputa, Makhmalbaf utilizza i suoi 115 minuti per parlare, parlare, parlare, (spiegare, illuminare, insegnare), per raccontare una storia che anche nel suo essere metafora non raggiunge alcun tipo di emozione, e si getta in alcuni (già citati) tentativi di scene madri per simulare, più che ottenere, i famosi momenti "semplici e poetici" (l'ovvio palazzo di sabbia appiattito dal mare), caratterizzati dalla scelta (stavolta onesta e attenta) di non soddisfare il voyeurismo e di lasciare tutto nel "sentito ma non mostrato" (il suicidio del soldato che torna a casa dopo una prigionia di cinque anni, lo stupro della neosposa, svariati ammazzamenti per le strade). Tra rari momenti azzeccati (il mascheramento da spaventapasseri, la marcia vista dall'alto di un campo coltivato), The President esplode nella sua insignificanza, o nel suo sensazionalismo strangolato, e tedia, perché non aggiunge né toglie nulla. Perché senza dubbio è privo di personaggi, e di qualsiasi tipo di analisi umana realmente profonda. E magari al suo interno ci sono storie, ma non c'è né la Storia né niente che davvero le assomigli. Presentato nella sezione Orizzonti al 71° Festival di Venezia.
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