Regia di Edoardo De Angelis vedi scheda film
Grigio. Come il mondo di chi sta dietro agli ultimi. Di chi copre loro spalle, oltre il confine della disperazione senza rimedio, della depravazione senza salvezza. L’avvocato Perez è come il suo nome: uno di noi, anche sembra straniero, un uomo del sud, ma che si direbbe venuto chissà da dove. Non c’è posto, per la sua austera e dolorosa normalità, nella nostra vita di tutti giorni, nel nostro orizzonte così limitato, stretto dai casermoni di vetro e cemento in cui si è congelato l’inganno di un futuro mai arrivato. La sua clandestinità è l’ombra del suo dovere d’ufficio, la difesa dei delinquenti di cui nessuno vuole sapere niente, che per tutti sono oramai relegati al di là del bene e del male: camorristi assassini, immigrati senza storia né patria. In quell’universo così piccolo e oscuro, così scomodo, sporco e negletto, la prospettiva è angusta: non c’è molto da vedere, si fa presto a mettere a fuoco la situazione. Eppure quella chiarezza ha la melmosa perentorietà di una messa al muro: rimane fatalmente inafferrabile, scivolosa in maniera micidiale. Questo film è viscido e ruvido come l’immondizia che si attacca alle mani e non se ne va, il fango che imbratta le suole, l’odore di stalla che impregna la pelle, il sentore di morte che resta sospeso nell’aria notturna. I cadaveri bruciano e si trasformano in cenere. Il sangue di una bestia scorre sui diamanti. Non c’è nulla di pulito, non lo sono nemmeno più quei lavoretti fatti per bene, che una volta non lasciavano tracce. Tutto, la giustizia al pari del crimine, si è mescolato, è scolorito in una volgare mancanza di senso, sprofondando miseramente nella mediocrità. Nell’Italia contemporanea sembra ormai inutile tentare di aprire un romantico spiraglio sul crepuscolo, sull’amaro incanto del declino: la fine è solo un veleno ad effetto prolungato, che uccide confondendo le acque, attraversando un torbidume che induce l’oblio con lo strumento del disgusto. Questo film sarebbe un noir se solo fosse più levigato da quel tipico buio che fa sparire le differenze, che sgombera il campo dalle sbavature, che ammette come uniche imprecisioni le diaboliche nuances dell’ambiguità. Invece qui il marcio esce dai margini ed offusca lo sguardo. Per andare avanti occorre inghiottire un retrogusto pestilenziale, un sapore di budella e di tradimento, di carte ammuffite, di tombe abbandonate. La tristezza è un’emozione combattuta, che non trova pace, che deve continuamente fare i conti con l’invadenza di un anonimo brutto: corpi che non si muovono più, occhi resi incapaci di sorridere, saluti che si spengono in addii, sogni che diventano reliquie. Il titolo del film, scarno e brevissimo, si conclude subito con un punto finale: la brutalità è non poter portare a termine il pensiero, sentirsi chiamare solo per vedersi espellere dal regno della ragione, in cui si avrebbe il tempo di chiedere perché, e il diritto di ricevere una risposta. La frase si contorce, prima di essere troncata: lotta fino all’ultimo, ma sarà da buttare. È l’unico modo per voltare pagina: per poter ricominciare, nessuna redenzione, bensì una dannazione da quattro soldi, da dare in pasto ai cani.
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