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Vampyr

Regia di Carl Theodor Dreyer vedi scheda film

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La recensione su Vampyr

di Peppe Comune
10 stelle

Allan Grey (Julian West, pseudonimo del barone Nicolas de Gunzburg) è un uomo accupato nello studio delle forze demoniache. Un giorno arriva al villaggio di Courtempierre nei pressi di una locanda dall’aspetto un po’ lugubre e decide di pernottarvi. Qui viene avvicinato da un uomo misterioso (Maurice Shultz) che gli consegna degli incartamenti sigillati intimandogli di aprirli solo alla sua morte. Proseguendo il suo viaggio, il giovane studioso arriva a un maniero poco lontano dove il vecchio signore vive in solitudine con le due figlie, Gisèle (Rena Mandel) e Lèone ( Sybille Shmitz), e il vecchio servitore (Albert Bras). Qui è testimone della morte del vecchio e di un maleficio che s’impossessa di una delle ragazze. Leggendo le carte consegnategli da lui, Allan Grey scopre dell’esistenza di una certa Marguerite Chopin (Henriette Gèrard), una vampira che, aiutata da un gruppo di adepti capeggiati da un dottore occhialuto (Jan Hieronimko), produce terrore e morte.

 

Locandina originale

Vampyr (1932): Locandina originale

 

“Questa storia riguarda le strane avventure del giovane Allan Grey. I suoi studi sulla venerazione del diavolo e sul terrore di vampiri dei secoli passati la hanno reso un sognatore, per il quale il confine tra il reale e l’irreale è diventato sottile”, ci informa la didascalia che precede e presenta il film. In effetti, la sensazione che si ha di fronte a questo splendito “horror in bianco” è quella di un viaggio in soggettiva compiuto all’interno di una percepita liturgia dell’orrore, un viaggio continuamente sospeso tra sogno e realtà, stato ipnotico e condizione cosciente, che si compie per mezzo di una ricercata fascinazione per l’ignoto e attraverso un inconscia suggestionabilità dello spirito. “Vampyr” (liberamente ispirato a “Carmilla” di Joseph Sheridan Le Fanu) è un prodigio di tecnica applicata al cinema, un film sul “vampirismo” insolitamente ambientato in luoghi esterni, con la luce naturale a fare da cornice estetica al surreale e una vicenda in cui si dà più importanza alle paure degli uomini che alle malefatte dei “mostri”. Carl Theodor Dreyer piega i dettami dell’espressionismo alle proprie esigenze stilistiche attraverso un sapiente gioco di luci ed ombre che, nel mentre producono l’effetto voluto di rendere chi guarda immediatamente partecipe dell'impressionabile personalità  di Allan Grey, della sua stessa paura e della sua stessa voglia di giungere fino all’origine del male, serve allo scopo di attribuire alla “sarabanda orrorifica” cui si assiste una fascinazione visiva di grande pregio figurativo (grazie anche alla pregevole fotografia di Rudolph Matè). Dreyer non mostra mai l’orrore, lo evoca soltanto. La prospettiva con cui si possono guardare le cose che ci circondono è filtrata dalla nostra particolare predisposizione d’animo che, relativa  o assoluta che sia, figlia di una condizione transitoria o frutto di convincimenti profondi, può produrre l’effetto di creare un’alterazione visiva degli oggetti nonostante la loro invariata fisicità. Questa era la chiara intenzione del maestro danese, creare un atmosfera di cupa suggestione emotiva partendo dall’ambiguità corporea conferita agli oggetti (ad esempio, un innocuo contadino che torna dalla campagna con la sua falce si trasforma nell’immagine lucubre della morte). E questo è quanto riesce a fare, attribuendo un autonoma volontà d’azione al mondo incorporeo delle ombre e dando forma e sostanza alle sinistre visioni di una mente fertile e sensibile. Lo sdoppiamento delle ombre consente l’incontro tra il razionale e l’irrazionale nel terreno fertile dei più sinistri presagi, il mondo dei vivi e quello dei morti finiscono per riconoscersi nelle ataviche paure per le forze ultraterrene e nell’idea mitica dell’eterno ritorno (bellissima e giustamente celebre la sequenza in soggettiva che ritrae Allan Grey nella bara, con gli occhi “morti” di paura rivolti verso l’alto, mentre viene condotto verso la sepoltura). Che sia il potere politico ("La passione di Giovanna d'Arco"), l'oscurantismo della chiesa ("Dies irae"), l'integralismo religioso ("Ordet"), la ricerca di un amore assoluto ("Gertrud") o lo studio sulle forze demoniache come in questo caso, è sempre il senso di morte a veicolare con una prodigiosa proprietà di linguaggio cinematografico la poetica di Carl Theodor Dreyer, la cui opera è continuamente percorsa da riflessioni speculative condotte sull'uomo e per l'uomo : sulle sue inquietitudini terrene e sulla sua accertata limitatezza rispetto alle forze "ultraterrene".

 

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