Regia di Federico Fellini vedi scheda film
Il successo dei Vitelloni (1953), è la svolta dell’intera carriera di un Federico Fellini, trovatasi improvvisamente subissato di offerte.
Progetti su commissione e richieste di improbabili rifacimenti al femminile “le vitellone”, per battere il ferro finché è caldo. Federico Fellini resiste a tutto, lui vuole solo fare un suo personale cinema, così ritira fuori dal cassetto un progetto coltivato da oltre 3 anni, “La Strada”, basato sull’avanspettacolo circense errante, da sempre oggetto della fascinazione del cineasta.
Questa volta i produttori vogliono venirgli incontro, il problema è che tutti rifiutano la moglie Giulietta Masina, come protagonista nella parte di Gelsomina. Ma Fellini è testardo, o si prende lei, oppure tanto vale che il film non si faccia proprio, sarebbe come cambiare il regista, visto che l’opera è stata concepita proprio avendo in mente tale attrice nel ruolo principale.
La coppia Ponti-De Laurentis, acconsente al finanziamento dell’opera – non prima che quest’ultimo abbia tentato inutilmente di imporre Silvana Mangano come protagonista -, anche se i cordoni della borsa non sono molto larghi, ma pur di fare il film a questo punto, Fellini acconsente ad un budget basso, purché abbia il controllo creativo totale dell’opera ed in merito al resto del casting, scegliendo Anthony Quinn nel ruolo del burbero zingaro Zampanò; un attore di suo gradimento e che De Laurentis accetta, in quanto garanzia di vendibilità dell’opera nel mercato internazionale.
L’attore americano, è titubante, le abilità dialettiche di Fellini non sortiscono effetto alcuno, ma per fortuna il regista di Rimini è un grande creatore di immagini, così la visione dei Vitelloni (1953), fa superare ogni remora e sopportare un set piccolo, nonché privo delle comodità delle grandi produzioni a cui da tempo è abituato, ma Anthony Quinn, intuisce presto il potenziale artistico del film, prestandosi ai piccoli sacrifici richiesti.
Con La Strada (1954), Federico Fellini dispiega appieno il proprio talento, che esplode in tutta la propria forza visiva, in questo apologo dal tono fiabesco, sulla solitudine umana, alla ricerca di un proprio senso e posto nel mondo. Gelsomina (Giuletta Masina), è una giovane ragazza, dall’indole buona e sensibile, ma a detta di sua madre “venuta su un pò strana” - probabilmente affetta da una lieve disabilità mentale -, tanto da essere obbligata a venderla per 10.000 lire al rude Zampanò (Antohony Quinn), un circense che girovaga lungo l’Italia, per esibirsi in spettacoli in cui mette in mostra la sua enorme forza fisica.
Irruento, bruto, titanico, violento ed irascibile, Zampanò è tutto all’opposto di Gelsomina, sia fisicamente che caratterialmente, muovendosi sulla base di istinti primordiali primitivi, del mangiare, bere, dormire ed andare a donne. Rude nel linguaggio e spiccio nei modi, il forzuto circense, tratta malamente la sua nuova assistente sia verbalmente che fisicamente a suon di scudisciate sulle gambe, considerandola alla stregua di un oggetto (“le mie donne”) o un’animale da addomesticare (“io addestro anche i cani”), più che di una persona con una sua profonda e sensibile dignità.
Giulietta Masina, tramite la sua vocina un po’ sgraziata e soprattutto attraverso il suo viso innocente, truccato con sembianze da clown, trasmette un’intima quanto dolente sensibilità, che ricorda quella dolente e sofferta del mimo Barrault degli Amanti Perduti di Marcel Carnè (1945), più che quella di Charlie Chaplin, essendo la ricerca di Fellini mirata non alla mera rappresentazione di uno spaccato sociale dell’Italia, quanto a raffigurare con schizzi di disegno, l’interiorità dei personaggi, intenti a rapportarsi con un mondo ben più irrazionale e misterioso di quanto appaia superficialmente, aprendosi verso territori lambenti il mistero della fede.
Se Gelsomina simboleggia l’anima, mentre Zampanò rappresenta la componente fisica, che distrugge tutto ciò con cui entra in contatto – semplice, ma efficace, lo spettacolo in cui si esibisce spezzando la catena con la sola forza dei muscoli pettorali -, il personaggio trapezista del Matto (Richard Basehart), sintetizza una visione trascendentale dell’esistenza, quando tenta di far capire a Gelsomina, come pure un qualcosa di insignificante come un sasso, abbia un proprio scopo nell’universo.
Le conclusioni a cui giungono i personaggi, sono dovuti alla loro natura di archetipi fiabeschi, più che a ragionamenti scaturiti da un’osservazione deduttiva della realtà dei fatti, adeguandosi, alla narrazione rapsodica ed episodica, tipica dello stile di Federico Fellini, uniformando il quadro d’insieme tramite la fotografia di Otello Martelli, dai pastosi toni grigi, il cui colore, lungi dall’affogare il tutto in una monotonia visiva, riesce a far emergere l’interconnessione essenziale tra Gelsomina e Zampanò, dove l’immensa solitudine del secondo, può essere lenita solo dalla sensibilità interiore della prima.
La Strada segna quindi l’affrancamento definitivo di Federico Fellini dai canoni del neorealismo, per giungere al cosiddetto “fantarealismo” (espressione usata dl regista, che come detto amava coniare nuovi termini), alla ricerca di slanci visivi insiti nell’irrazionalità di una realtà, ben più articolata ed indefinita, rispetto ad un mero realismo, diventato oramai più un marchio di industriale, che strumento d’indagine di una realtà, tra l’altro in rapido mutamento per via del nascente boom economico, che richiedeva nuovi strumenti, generi e canoni stilistici, per raccontarla sul grande schermo.
La componente onirico-visionaria tipica del regista, non deve però far dimenticare l’intima tragicità che permea i propri personaggi; nona caso il film si conclude circolarmente con l’inizio, dove però la spiaggia se dapprima era simbolo di un orizzonte in formazione, nel finale diviene un non luogo di un individuo oramai alla deriva, senza posto nel mondo e né scopo, spiaggiato senza via di scampo in una devastante quanto dolorosa solitudine.
Ottimi incassi sul mercato italiano ed internazionale, il film, nonostante un Leone d’Argento a Venezia nel 1954, fu osteggiato da molti critici militanti, che lo accusarono di tradimento dei valori del neorealismo, poiché incapaci di concepire l’allegoria fiabesca. Ne nacque una sterile contrapposizione ultradecennale tra felliniani e viscontiani (Senso del regista di Milano, ugualmente in concorso non prese nulla, esacerbando ancor di più il clima bollente), con tanto di incomprensioni che toccarono i due registi, riappacificatasi solo nel 1963. Come noto il successo internazionale fu enorme, con tanto di vittoria agli oscar miglior film straniero del 1957, nella prima annata, in cui veniva istituita tale categoria competitiva.
Film aggiunto alla playlist dei capolavori del cinema: //www.filmtv.it/playlist/703149/capolavori-di-una-vita-al-cinema-tracce-per-una-cineteca-for/#rfr:user-96297
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