Regia di Ruben Mendoza vedi scheda film
La fine è piena di verità. È il riassunto del troppo vissuto, del troppo taciuto. L’anziano don Silvio vuole terminare i suoi giorni nel luogo che gli appartiene, nel quale si stanno spegnendo i suoi affetti ed i suoi ricordi, e che deve essere ereditato dalla sua discendenza. La Colombia rurale di Rubén Mendoza è il regno nascosto di un istinto primordiale che ha saputo lasciarsi forgiare dalla saggezza, quella conquistata duramente sul campo di un’aspra battaglia contro i nemici provenienti dalla natura, dalla politica, dal crimine. Sono queste le tre anime di un Paese selvaggio, nel quale la radicalità delle posizioni e dei contrasti sociali sembra nascere dalla legge della giungla, che fa vincere il più forte, e che non perdona il più debole. La morte è violenza, necessità, vendetta, ed è la conclusione di ogni partita, compresa quella in cui a giocare è l’amore: anche in quel caso tutto finisce con la tierra, fosse anche una manciata di ceneri da spargere al vento. Quella materia, così fondamentale eppure impalpabile, è la sostanza inerte a cui si comincia a ritornare da giovani, dovendola toccare con mano, dovendone discutere. In questa storia il mondo antico si affaccia sul presente col suono di una minaccia, che vuole cancellare ciò che è stato per fare piazza pulita. Il futuro è l’invasore che preme per impossessarsi dell’eredità del passato, senza alcun riguardo, e a proprio uso e consumo. È in quella direzione che Silvio guarda con terrore. Vuole andarsene prima di compiere quell’incontro fatale con un tempo sconosciuto, che gli ordinerà di farsi da parte. La tradizione teme più di ogni altra cosa lo strazio di assistere al proprio tramonto. Da quell’avvilente spettacolo non ci si può salvare nemmeno ai margini del mondo, nel silenzio delle praterie, in mezzo alle foreste popolate dagli animali selvatici. Questa storia mostra come la magia ne sia stata estromessa, consumata dalla continua battaglia contro l’avanzare della modernità. Si narra che Silvio fosse un padre autoritario e crudele, probabilmente pazzo. Usava strani metodi educativi, era cinico e manesco. Si vedeva forse come il capostipite di una famiglia destinata alla guerra, votata al totale disincanto che caratterizza la lotta per la sopravvivenza. Al raccontarlo, la lingua si copre ancora di quella polvere corrosiva che gratta via la dolcezza, cominciando dalle parole. È la stessa che in questo film sembra velare la luce del sole, che è grigia e tiepida, anche quando è estate e in cielo non ci sono nuvole. Come già nel precedente La sociedad semáforo, Rubén Mendoza ama parlarci attraverso la nebbiolina della mezza stagione, sospesa ad un palmo dal suolo, dove si posa il respiro dei perdenti mai arresi alla sconfitta: i mancati infelici che non demordono, che perseverano nel tentativo di costruirsi un destino glorioso, temerariamente plasmato nel nulla.
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