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Hector

Regia di Jake Gavin vedi scheda film

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La recensione su Hector

di alan smithee
6 stelle

La vita di strada di Hector, alla ricerca di calore umano, quello che non riesce più a provenire dalla propria famiglia, ma solo dall'esterno. Il Regno Unito degli ultimi e dei diseredati in un film che aspira a Ken Loach, ma punta tutto e sin troppo sul suo straordinario interprete.

Hector ha da tempo abbandonato il sentiero della ordinaria vita suddivisa tra famiglia e lavoro, e sopravvive della carità altrui e del ricovero offerto da centri di accoglienza, trascorrendo tutta la giornata per le strade, a vagare con la sua stampella e la sua accentuata claudicanza in cerca di un sostegno: senza chiedere la carità, ma accettando ciò che la società offre in termini di generi di sostentamento, locali ove ripulirsi e riscaldarsi dal gelo delle fredde arterie automobilistiche che collegano il paese.

Lo seguiamo in particolare mentre intraprende l’abituale viaggio verso la capitale inglese, per partecipare alla solita festa di Natale in un centro di accoglienza ove ritrovare il calore di una famiglia di amici di vecchia data.

Si perché Hector ha tagliato i ponti con la sua famiglia da tempo, scegliendo scientemente la vita da “senza-fissa-dimora” per rifuggire ad un passato che si vuole dimenticare.

E anche quando il passato, sotto forma dei suoi due fratelli, tenterà di tornare a riacciuffarlo, l’uomo proseguirà dritto per la sua strada, nonostante le difficoltà, il freddo, gli acciacchi sempre più problematici di un fisico che comincia progressivamente a cedere.

Jake Gavin esordisce alla regia con un film sulla emarginazione che mantiene lucidità e non si piange addosso. Certo con un attore dell’espressività ed il carisma di Peter Mullan è possibile anche non far nulla di fondamentale, a livello di regia e direzione, per renderci comunque interessante e vivace lo spettacolo: l’attore si muove dondolandosi sulle stampelle, incespicando con passo incerto ma anche deciso e risoluto, e vive, soffre, si lamenta, gioisce e si arrabbia con una classe che solo un grande interprete potrebbe affrontare con la medesima classe e credibilità.

Di fatto il film si lascia seguire, ma non cavalca grandi linee narrative o storie incalzanti che ci restituiscono l’attore come parte integrante di un insieme di contributi nettamente positivi (sto pensando a validissimi altri film visti di recente con Mullan tipo Sunset Song, Tirannosauro, The liability, Boy A): il grande interprete, protetto col suo giubbino catadiottrico e fosforescente, di fatto fagocita la pellicola divenendo la circostanza essenziale e necessaria per fornire al film la sua vera ed autentica ragione/spiegazione di esistenza: ben venga pertanto la sua indispensabile presenza all’interno di un cast corretto e volonteroso, ma decisamente sottotono rispetto al carisma del grande scozzese.  

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