Regia di Anthony Mann vedi scheda film
Quando si pensa a Anthony Mann, il primo titolo che viene in mente... non è certamente The Glenn Miller Story. Incastonato tra due straordinari capolavori western di inizio anni Cinquanta, Lo sperone nudo e L'uomo di Laramie, entrambi con un James Stewart mai così cinico e pessimista, questo biopic musicale su Glenn Miller esula completamente dal sodalizio Mann-Stewart di quegli anni.
Stewart veste qui i panni di un musicista che ha fatto la storia dello swing negli anni Trenta (portandolo verso i territori del boogie woogie) ma che non ha avuto una vita particolarmente memorabile, se non per gli inizi difficili e per la morte tragica ad appena 40 anni d'età. In mezzo, niente di particolarmente clamoroso: vita privata e vita pubblica sono scorse sotto il segno della più normale delle professionalità.
A livello strettamente musicale, i puristi del jazz hanno sempre guardato con un po' di snobismo a Glenn Miller, colpevole di non avere né la genialità creativa di Armstrong né la consapevolezza polifonica di Ellington né la fedeltà filologica al genere di Goodman. Una produzione considerata troppo leggera, troppo commerciale, troppo facile, troppo ballabile. A certe chiacchiere da bar sarebbe meglio rispondere con le parole di un grande storico del jazz, Gunther Schuller: È difficile pensare a qualcuno con un suono tanto unico. Infatti, Glenn Miller andrebbe studiato come linea di congiunzione tra jazz e musica pop: in tal senso, il suo lavoro è stato davvero unico.
Anthony Mann, su sceneggiatura anche fin troppo delicata di Valentine Davies e Oscar Brodney, si limita a dirigere con sicura professionalità un omaggio malinconico all'arte e alla vita di un musicista amatissimo tra anni Trenta e anni Quaranta che avrebbe potuto dare ancora tanto al mondo se l'aereo col quale stava attraversando la Manica durante la seconda guerra mondiale - si era arruolato volontario per portare un po’ di consolazione oltreoceano alle truppe con la sua musica - non fosse precipitato nel 1944. Nessun tipo di scavo è compiuto, né psicologico né musicale né tantomeno sociale: sono accadute tante cose nel mondo tra il 1929, quando Miller iniziò a emergere, e il 1944 e indagare l’era delle big band (Tommy Dorsey, Artie Shaw etc.) sarebbe stato molto interessante sulla carta.
Un film probabilmente trascurabile, come l'interpretazione di Stewart che mai come in questa occasione si limita a rifare se stesso (anche lui come Miller aveva combattuto in volo), ma che, in un genere inflazionato da ritratti di artisti sempre maledetti o drogati o suicidi o contraddittori o chissà cos'altro, conserva un certo fascino, anche a 70 anni di distanza, proprio per la pacata bonarietà del protagonista e della sua donna, interpretata dalla volenterosa June Allyson. In tal senso, è qui che va ricercato, forse, il senso dell’operazione: un elogio, a 10 anni dalla morte di Miller, a un tipo di musica ancora enormemente amata in tutto il mondo, a quel right sound inseguito affannosamente dal protagonista per anni e che costituì l’accompagnamento sonoro di milioni di persone durante l’età d’oro della radio, faticosi anni di guerra inclusi.
Ottimo il lavoro di Henry Mancini nel riarrangiare alcuni pezzi immortali, da A String of Pearls a Tuxedo Junction (presente anche in The Irishman di Scorsese), da Chattanooga Choo Choo a Pennsylvania 6-5000 per arrivare alla celeberrima In The Mood, forse il più famoso pezzo swing di tutti i tempi, scritto da Joe Garland e portato alla ribalta da Miller.
Tutti quelli che, come il sottoscritto, non possono fare a meno di lacrimare copiosamente ogni volta che ascoltano il capolavoro leggendario Moonlight Serenade, la cui genesi è ripercorsa in una scena semplicemente straordinaria priva di dialoghi e di inutili enfasi, troveranno pane per i loro denti.
Nota personale #1
Il cameo di Armstrong con relativa esecuzione di Basin Street Blues è da applausi. Tuttavia la versione del 1931 dei Charleston Chasers è più azzeccata
Nota personale #2
Piazzare a tradimento St. Louis Blues, uno degli standard fondativi scritto nel 1914 da William Christopher Handy, durante la marcia dell'esercito è stato un colpo al cuore di pura genialità.
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