Regia di Todd Haynes vedi scheda film
In Carol è spesso presente una sorta di velo formale che trattiene la deflagrazione delle immagini; una garza visuale che tampona il flusso mestruale dell'emozione. Ecco perché l'ultimo grandioso film di Haynes risulta, in sostanza, un'opera (straordinariamente) trattenuta. Un lungometraggio di figure e sguardi schermati, asciugati, frenati (che sembrano saltare fuori direttamente dalle fotografie realizzate dal fotografo Saul Leiter), in cui lo soddisfacimento relazionale risulta costantemente rimandato, perché, probabilmente, intrappolato in un limbo sentimentale ed emozionale, come fosse bloccatoin un sogno, dietro la "superficie delle immagini" che Haynes cuce, difatti, sulla concretezza del racconto. Insomma, come se tutto fosse la rifrazione di un sogno. Del sogno. In cui l'unica e vera occasione fusionale - non tanto a livello carnale, ma proprio da un punto di vista rapportuale ed esistenziale - è possibile solo attraverso una lenta dissolvenza incrociata che sembra, piuttosto, una sovrimpressione delle immagini. Ed è il Cinema, quindi, l'ultima speranza rimasta. Il resto è solo un'illusione, compresa la realtà.
Silencio(?).
Haynes, come accennato pocanzi, porta avanti, attraverso le immagini, un discorso teorico sulle superfici, le quali, nel suo Cinema, non vengono mai smantellate, destrutturate o scomposte, mai messe in discussione; anzi, il regista americano tesse sopra la realtà del racconto questa sorta di velo formale, di patina filmica, utile per far sì che risalti l'impossibilità di un'evoluzione sociale, di una realizzazione relazionale, facendo sì che tutto ciò rimanga sempre sotto/dietro la superficie e il contrasto sia, appunto, più forte e palpabile.
La superficie, qua, non viene mai messa in dubbio, a differenza di ciò che accade nel Cinema di David Lynch, per esempio, verso il quale l'Immagine cinematografica di Haynes ha, però, alcuni punti in comune.
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