Regia di Todd Haynes vedi scheda film
“Studiare la correlazione tra quello che si dicono i personaggi e quello che provano”.
Come il ragazzo, che per la sesta volta rivede la medesima pellicola col fine di carpire gli invisibili moti dell’animo che investono i protagonisti, così Todd Haynes ci sprona (ci guida) a guardare meglio, ad andare oltre l’apparenza, al di là di quello che i nostri occhi percepiscono, al primo impatto, come verità oggettiva.
È soltanto dopo aver conosciuto la storia di quelle due donne sedute al tavolo di un ristorante qualunque, nella fredda New York degli anni ’50, che possiamo realmente intercettare le emozioni che la loro conversazione in entrambe ha suscitato.
Così, una volta assaporata l'amara illusione della libertà, in quel viaggio verso il nulla che somiglia più ad una fuga senza meta -forse l’unica dimensione possibile per chi, volendo (tentando di) preservare la propria identità, si trova costretto a lasciare ciò che chiama casa- ritorniamo, come a chiudere un cerchio ideale, a guardare la scena del ristorante, stavolta, però, da una prospettiva diversa.
Da una posizione ravvicinata. Potremmo dire privilegiata.
Assistiamo all’incontro con occhi colmi di una consapevolezza che prima non possedevamo.
Possiamo, dunque, ascoltare le poche vibranti parole che le 2 donne si scambiano, e renderci chiaramente conto della natura delle espressioni cangianti tracciate sui loro volti ora deliziati, ora tesi, ora rilassati.
Espressioni piene di speranza e traboccanti d’immensa tristezza.
E renderci conto che quella mano sulla spalla, a fine conversazione, è più di un affettuoso gesto di congedo temporaneo, come sembrava in un primo momento.
È piuttosto un atto estremo, intriso di un dolore impossibile da quantificare, faticosamente trattenuto, straordinariamente controllato.
L’unico possibile contatto prima del distacco definitivo.
La reazione a quel tocco, per quanto accennata, adesso possiamo coglierla nettamente.
In tutta la sua forza e nitida evidenza.
Come se Haynes intendesse insistere su particolari dettagli che nella ripresa precedente ha (volutamente) trascurato, focalizzando lo sguardo su sfumature, di primo acchito, impercettibili, invisibili all’occhio dell’osservatore di passaggio.
La nostra prima impressione ci ha reso come ciechi di fronte al nostro guardare di nuovo e meglio.
Per assistere/partecipare ad una dolente epifania dei sentimenti.
La magia del cinema.
Quel suo saper cogliere-rivelare-svelare ciò che si nasconde nelle pieghe di un’apparente ordinarietà.
Di fissare in un eterno attimo le fugaci emozioni che perpetuamente ci attraversano.
Come un’istantanea, un solo scatto in grado di penetrare nell’intimità di chi vi resta impresso.
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