Regia di Todd Haynes vedi scheda film
Carol è la sua pelliccia. Mai abbottonata perché altrimenti significherebbe repressione, è l’involucro del suo desiderio, una protezione dal suo mondo che rappresenta anche un’annessione a quel suo stesso mondo. Carol è anche la sua vestaglia da notte, il costume di passaggio ad un’altra pelliccia, più dimessa. Therese, invece, è un cappello: quello natalizio, che mette forzatamente a lavoro, dove peraltro incontra l’impellicciata Carol, o quello di lana, coi colori primari, un guizzo di elementare cromatismo che sovrasta la diafana figura di un essere imperscrutabile («a cosa pensi?» le chiede continuamente Carol).
Gli abiti non fanno le monache, però qui forse assumono la funzione che il cinefilo amico di Therese studia in merito a Viale del tramonto, che ha visto una mezza dozzina di volte per capire la differenza tra ciò che i personaggi dicono e ciò che pensano. I costumi non prescindono Carol e Therese, quando non possono o non vogliono parlare delegano la comunicazione alla loro rappresentazione visiva: in questo senso, l’ultima sequenza è addirittura capitale poiché, senza anticiparla, la contaminazione tra i mondi (l’alta borghesia e la bohémien metropolitana, la maturità e la giovinezza, la consapevolezza e la scoperta) raggiunge un livello tale da non necessitare di parafrasi verbale.
Sarebbe quindi un film sull’immagine? Un film sul vedere come suggerisce il primo incontro tra le due donne: incrocio di sguardi, distrazione di Therese, scomparsa di Carol, ricerca di Therese, ritorno di Carol e infine Carol che si volta per un istante quasi a voler immortalare lo stupore di Therese. D’altronde, grazie alla signora, la ragazza trova un senso al suo apprendistato nella fotografia: sublimata dalle istantanee improvvise ma ricorrenti di Therese, Carol si fa oggetto del desiderio, musa inquietante, opera d’arte. Anche se non capiamo mai davvero da dove venga il loro amore, ci basta vedere come quell’amore si declina, si plasma, esplode.
E poi? Carol è il plastico di una storia che non c’è? È il trionfo del décor a discapito del pathos? Costumi che soffocano personaggi interrotti? L’eterna questione di forma e contenuto – ma, si sa, la forma è sempre contenuto e viceversa? Dopotutto dobbiamo per forza capire? Ci interessa realmente comprendere quali siano le ragioni del love affair? Occorre accumulare la noia borghese all’educazione sentimentale più l’irrequietezza giovanile e il vivere secondo natura? Fosse soltanto un’ennesima variazione sull’imitation of life? Sui secondi amori, sulle magnifiche ossessioni, su qualcuno che prima o poi verrà, nient’altro che un grande omaggio al cinema retrò?
Com’è noto, il parco Todd Haynes fa un cinema prezioso nel senso della cura estetica, prosegue il grande discorso amoroso del mélo americano, più o meno interrotto negli anni sessanta per le ragioni più disparate (evoluzione del costume, mutamento della società, contaminazione con altri generi, rinnovamento del genere), è fieramente votato alla rievocazione del passato ma sceglie un punto di vista contemporaneo, non solo per l’audacia della messinscena ma anche per un uso critico della nostalgia. Non c’è la malinconia di un mondo perduto ma la riflessione su un mondo eternamente legato ai suoi riti e miti.
Certo, nei suoi film la società è quasi scorsesiana per l’esercizio della violenza eppure non è mai totalmente centrale: Haynes lavora sull’individuo, si accolla i suoi bisogni al fine di concedergli un posto nel mondo. Perciò, nei pressi del capodanno, lascia peregrinare Carol (una monumentale Cate Blanchett) e Therese (la pur brava Rooney Mara) in un’America fatta di motel e città dai nomi assurdi e sinistramente evocativi (Waterloo), accordando alla loro passione il germe della disperazione di chi deve andare lontano dal paradiso.
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