Regia di Todd Haynes vedi scheda film
Una mano sulla spalla. Un tocco delicato, semplice e bellissimo, che sembra (più di quel «ti amo» sussurrato su labbra frementi), per un attimo lunghissimo, afferrare lo sfuggente meraviglioso sentimento, imploso tra l'apparente casualità del gesto e la reazione dolcemente travolgente. Un turbinio emotivo nato e scatenato, sempre in punta di trattenuto turbamento, in seguito all'insperato, complicato ritrovarsi (come fosse il preludio di un definitivo lasciarsi) dopo dolorose, inesorabili scelte passate.
Scena che racchiude, avvolge, narrativamente il film, e il senso ultimo e intimo dello stesso: uno scorcio sull'universo creato dall'incontro e dalla storia tra Carol e Therese. Anime erranti tra la solitudine di chi avverte tutto il peso dell'inadeguatezza (l'orientamento sessuale, certo, ma pure l'essere donna nei candidi immoti anni cinquanta) e conflitti accesi: la prima, agiata donna matura con figlia, in fase di separazione da un marito per il quale era mero oggetto di esibizione e possesso; l'altra, con le incertezze e gli slanci della giovinezza e la passione per la fotografia, assediata da un fidanzato che non prova minimamente a capirla.
In un'atmosfera natalizia sempre sospesa tra toni pastello virati su rosa terroso e verde e un'illuminazione densa dai caldi carezzevoli granuli, il primo incrocio di sguardi - nell'affollato reparto giocattoli dei grandi magazzini in cui lavora la "commessa 645A" Therese - (di)segna l'inizio di un legame che il successivo incontro prandiale fa germogliare come un preziosissimo seme (con con la mdp che, con la nobiltà di chi non vuole intromettersi in qualcosa che percepisce grande, alterna i primi piani) e il motivo suonato al piano da Therese (Easy Living di Billie Holiday ft Teddy Wilson: un incanto) fa definitivamente sbocciare.
Che le coordinate del racconto si spostino poi a individuare tanto l'evoluzione del sentimento (un on the road tra motel in cittadine dai nomi assurdi) quanto prevedibili, dolorosi ostacoli (le odiose manovre legali del marito di Carol per ottenere l'affidamento esclusivo della figlia) è "solo" (sensazionale) impaginazione in movimento della materia narrativa (Patricia Highsmith, 1952, sotto pseudonimo).
Da seguire estasiati; e vivere, fino a un tragico climax che inscena magnificamente il distacco sancito da un «ti lascio libera» scritto con inchiostro e lacrime da Carol su una lettera d'addio, e causato dalla condotta "riprovevole" della stessa: l'orribile "clausola di moralità" è un muro - eretto su norme e rozzi fondamenti culturali-etici della perbenista collettività - insormontabile, pena la perdita di chi ci è più caro.
Carol - fonte primaria e medium -, oltre che struggente storia d'amore e riflessione sul "diverso" è un sincero, profondo sguardo sui tempi (la New York dei primi anni cinquanta, patinato recintato rifugio borghese): nello scarto tra rigide imposizioni sociali e (auto)affermazione identitaria («non posso negare la mia natura» afferma la protagonista, consapevole delle conseguenze della sua scelta) vibrano l'essenza e il senso ultimo dell'opera (stratificata, attuale, potente).
In forma di mèlo; sensazionale lavoro frutto di una sontuosa, fluida composizione delle inquadrature (che vive di quella elegante perfezione stilistica non algida bensì avvolgente) e di una intensa rappresentazione scenica in armonia col narrato e la (seducente) ricerca audio-visiva. Non una singola sequenza fuori posto o di troppo, o banale: si assapora e adora ogni momento, ogni movimento della mdp (studiato e raffinato, senz'altro, ma sempre rigoroso nel catturare in una prospettiva autentica volti-corpi-dettagli-oggetti-sfondi), ogni mutamento delle stagioni dell'animo.
Cinema allo stato puro, quello composto da Todd Haynes: per la stupefacente consonanza degli elementi (regia, montaggio, fotografia, costumi, scenografie: ça va sans dire, eccezionali), per la resa estetica, per la stupenda partitura musicale - alla sontuosa colonna sonora originale ideata e realizzata da Carter Burwell si amalgama una brillante scaletta di brani storici, da Billie Holliday a The Clovers -, per l'interpretazione delicata, gigantesca, espressiva delle due attrici: semplicemente divina Cate Blanchett, supelativa Rooney Mara.
Ah, certo, e per quel finale sublime, capace di scaldare i cuori e riempire gli occhi (ennesimo pezzo di bravura di Haynes), con la cinepresa che, nel descrivere e fermare su schermo l'ultimo intenso scambio di sguardi, circoscrive un mondo di cui lo spettatore è testimone privilegiato.
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