Regia di Todd Haynes vedi scheda film
E’ un amore doloroso pieno di sofferenza e di ostacoli da superare quello raccontato dal regista. Un dolore sordo che – citando Fassbinder - gronda “lacrime amare” come quelle di Petra von Kant, sparse sulle “pietre roventi” della passione, così profondo e ricambiato che non può essere arginato nemmeno dall’ottusità bigotta della società.
Tod Haynes, dopo le forti atmosfere sirkiane finalmente senza i veli imposti dal codice Hays di Lontano dal paradiso, torna di nuovo agli anni ‘50 per raccontare la storia di un altro amore impossibile in un’America bloccata dalla fobia di tutto quello che è diverso, in cui - pur senza essere mai evocato direttamente - si avverte in sottofondo l’eco sorda (e castrante) del puritanesimo maccartista che l'autore non esita a mostrare in tutto il suo crudele, intransigente perbenismo razzista.
Confermiamo subito allora che anche Carol (tratto dal romanzo di Patricia Highsmith The Price of Salt a suo tempo pubblicato sotto pseudonimo e adattato per lo schermo con rara sensibilità da Phillys Nagy) è – nelle atmosfere e nel senso - un’altra opera di “chiara” ispirazione sirkiana (questa volta virata tutta al femminile, perché qui lo sguardo del regista è tutto concentrato sulle due protagoniste del racconto così da poter davvero riservare alla loro struggente storia tutto lo spazio necessario per renderla avvolgente e palpitante).
Nella vicenda infatti gli elementi maschili (il marito di Carol, il fidanzato di Therese) rimangono volutamente sullo sfondo, assumono un ruolo che si potrebbe definire “strettamente funzionale”, quello di mettere in evidenza la loro grettezza intellettuale e la conseguente incapacità non solo di accettare, ma anche di comprendere la reale essenza delle donne che dicono di amare e che vogliono soltanto “dominare” quasi fossero oggetti ornamentali da possedere, dalle quali invece li separa una distanza siderale davvero incolmabile. Due universi incompatibili e incapaci persino di dialogare fra di loro nei quali quello degli uomini che popolano questo racconto , sono tutti prevedibilmente ottusi, mediocri, insensibili (e qualcuno anche vendicativo).
L’amore che lega Carol a Therese è qui dunque unico ed esclusivo (e come tale, letto in positivo). Haynes è insomma bravissimo a sottolineare la reciprocità del sentimento che unisce le due donne, talmente forte da determinare la loro estraneità dal mondo e dalla bigotta e repressiva società dell’epoca. Centra perfettamente l’obbiettivo, grazie a uno studiato utilizzo del linguaggio cinematografico e dei suoi ritmi interni che adegua magistralmente alle circostanze (purtroppo scambiati dai più, per “lentezza” esasperata e disturbante, e non considerati invece come l’espediente necessario per mettere in evidenza la dicotomia esistente fra i tempi più distesi che definiscono il progressivo innamoramento della coppia e quelli leggermente più frenetici in cui si muove invece il caotico andirivieni del mondo circostante). Il risultato è a mio avviso di straordinaria rilevanza, poiché con pochissimi tratti e ancor meno sottolineature, riesce così a descrivere (e a rendere palese anche allo spettatore) la spontaneità “naturale” con cui nasce e si concretizza questa irrefrenabile passione proiettata dentro a uno spazio circoscritto e privato che la protegge e la preserva, l’unico in cui possa in qualche modo crescere e svilupparsi senza essere disturbata dal pregiudizio (vedi – e cito questo momento solo a titolo d’esempio - la scena in cui – grazie agli eleganti movimenti della cinepresa – le due donne sembrano procedere con la loro auto con un andamento temporale diverso ed “allentato” rispetto a quello del traffico della città fosca, fumosa e tutt’altro che rassicurante che le circonda, quasi fossero rinchiuse dentro un involucro inscalfibile dall’esterno, o addirittura “sospese” nel tempo e nello spazio in un universo “altro” che inibisce l’ingresso a illazioni o pettegolezzi disturbanti).
La puntuale rivisitazione dell’epoca di riferimento (gli anni Cinquanta che fanno da sfondo a questa ultima fatica del regista sono quelli degli albori del decennio) aiuta in primo luogo lo spettatore a misurare la distanza che separa la società alto-borghese dei sobborghi americani di quell’epoca lontana dalla tolleranza e dall’accettazione che almeno in certi ambienti culturali e sociali, si respira invece nel nostro presente, ma proprio in virtù del suo essere iconograficamente perfetta ed efficace, possiede anche la rara qualità di rendere magistralmente palpabile il clima della New York scintillante e un po' fanè di quel periodo(come lo ha definito Emanuela Martini subito dopo Cannes) tramandatoci in diretta dai film in technicolor fotografati da Russel Metty, ed è questo un altro importante elemento (direi fondamentale) messo sul piatto con perspicacia dal regista al fine di dare la giusta rilevanza al non facile processo d’emancipazione delle due donne che imparano a conoscere e a confrontarsi con ciò che davvero vogliono, allontanandosi così non senza sofferenza, da una società che relegava ancora la donna al solo ruolo di moglie e madre, dentro a una vita unicamente vissuta (senza alternative) all’ombra di un marito spesso despota (dove peraltro è la più giovane e non la donna sposata che ha già una drammatica esperienza trasgressiva alle sue spalle “tarpata” però da un matrimonio che le ha gia restituito una volta la rispettabilità sociale, a nutrire inizialmente dei dubbi e a scoprire un lato della propria sessualità che ignorava di avere). In tale contesto, è dunque particolarmente significativa la figura di una Carol di nuovo “sotto osservazione”, vessata, giudicata e ricattata proprio perché intende gettare definitivamente alle ortiche agi e certezze per seguire il proprio “rinnovato” sogno di felicità. E’ infatti a causa della terribile forma di ricatto messa in atto dal marito e dalla legge che un altro tipo di dolore prende forma o si trasmuta: considerata madre indegna da una crudele 'clausola morale', la donna infatti dovrà giocoforza rinunciare alla custodia della figlia oltre ad essere costretta a subire l'umiliazione di mortificanti controlli medici che provano a “smontare” la sua omosessualità o a renderla conforme a una ipotetica quanto mai provata “malattia” da curare o a un “vizio” perverso da estirpare).
Oltre che la tumultuosa scoperta di una ”passione” proibita, Carol si esplicita quindi anche come una lotta contro i pregiudizi e le apparenze che resero quegli anni i più bigotti in assoluto di tutta la storia Americana. Un difficile, coraggioso, travagliatissimo percorso insomma (reso periglioso da costrizioni sociali e senso del pudore) verso la libertà e arrivare così finalmente alla piena affermazione di sé (anche se per realizzarsi appieno occorrere avere il coraggio di sacrificare qualcosa e andare avanti senza deragliare perché una seconda possibilità si presenta raramente nella vita e non si può assolutamente perdere l’occasione, costi quel che costi).
Ad accomunare le due donne infatti, c’è la perentoria, improvvisa volontà (che si avverte già dal primo “casuale” incontro ai Grandi Magazzini), di affermare la propria reale identità, a costo anche di dover frantumare pezzi importanti di una vita “altra” resa obbligatoria dalla repressiva società dei tempi.
Erede dunque dello splendore anche formale delle opere di Sirk (ma un Sirk che rimanda e richiama anche Fassbinder), Haynes confeziona un altro entusiasmante “melodramma raffreddato” in cui ogni elemento della messa in scena (studiatissimo quasi fino a rasentare il calligrafismo estetizzante), risulta davvero ineccepibile, ma al quale però il regista regala anche una dimensione socio-politica nella riproposizione “a piena luce” di quei temi (soprattutto quello primario dell’omosessualità),che all'epoca di Sirk non potevano essere trattati esplicitamente.
Si può dire allora che il film si sviluppa su due piani: da una parte quello della messa in scena di una relazione sentimentale ritenuta contraria alla morale; dall’altra quello dell’analisi dell’aspetto “sociale” delle relazioni interpersonali che legano i personaggi della storia (Carol appartiene alla borghesia; Therese al 'popolo') e delle differenze di “genere” (l'uomo può rivendicare e gestisre scelte e posizioni che alle donne sono invece negate per principio).
Tornando alle “appartenenze” e alle “derivazioni, si può dire allora che se Lontano dal Paradiso era il figlio diretto di Secondo amore, questa volta Haynes ha preso a modello un altro titolo essenziale del regista tedesco naturalizzato americano, e mi riferisco a un Come le foglie al vento qui reso però più essenziale e controllato, che (a mio modesto avviso) omaggia attraverso riconoscibilissimi riferimenti visivi e di forma, a partire da quei frequenti giochi di riflessi sui vetri e sugli specchi fedelmente riproposti, poiché anche qui (come già accadeva in quel capolavoro epocale) l’architettura della narrazione filmica fatta di campi e controcampi che la regia privilegia per filmare i progressivi sviluppi della “peccaminosa” relazione, poggia principalmente sulle emozioni che scaturiscono dai dettagli (un guanto dimenticato, i volti, gli occhi, gli sguardi, le fotografie, le mani che scivolano sulle spalle amate) colti con delicati quanto controllati movimenti di camera - vedi la toccante sequenza conclusiva in cui il pathos sommesso di tutta la rappresentazione, l’accorata sordina emotiva (Emanuela Martini) imposta dal regista alla scottante materia, raggiunge il suo apice drammatico (accadrà anche in altre due sequenze altrettanto “surriscaldate”: quella della notte trascorsa insieme nel motel e quella del lungo dialogo tra Carol e il marito davanti agli avvocati). Una sequenza in cui l’amore si manifesta nella sua forma più pura, senza bisogno di parole ma affidandosi semplicemente agli occhi delle due amanti ritrovate che si incrociano in un finale sospeso empaticamente emozionale, che si conclude con un vertiginoso, enigmatico sguardo in macchina della Blanchett che Martina Volpato su Segno Cinema ha assimilato a quello altrettanto straordinario (e che non a caso è rimasto nella Storia) di Harriet Andersson in Monica e il desiderio di Ingmar Bergman,.
La relazione stretta che si coglie proprio con il Sirk di Come le foglie al vento è poi confermata dall’impronta che il regista dà alla figura di Carol - spesso incorniciata (quasi “segregata”) fra stipiti e finestrini per accentuarne il senso di claustrofobia o per rimarcare la distanza sociale che la separa da una Therese comunque già in movimento per raggiungerla – che la rende la credibilissima personificazione (l’unica possibile nel firmamento attuale delle “dive”) di una “moderna” Lauren Bacall dallo sguardo glaciale, quasi impenetrabile, di fascinosa donna di “classe superiore” che sa stare alla pari con l’uomo ed è proprio per questo inevitabilmente eversiva suo malgrado (ancora Emanuela Martini) alla quale si contrappone una Therese derivata direttamente dall’Aundrey Hepburn di Arianna (la “donna-bambina”), e della quale ripropone praticamente la stessa acconciatura (e – se vogliamo – anche la stessa “trasgressione” che esisteva già nella pellicola di Wilder, perché anche lì, sia pure in versione più “normalizzata”, la “passione” sbocciava - e si concretizzava - verso una persona molto più grande di lei,, o semplicemente “più matura”, come si direbbe oggi).
Racchiuso tutto in un lungo flash-back (un omaggio sentito al cinema del passato e dove in qualche modo ritorna ancora Wilder e il suo Viale del tramonto che insieme a Breve incontro di Lean, rappresenta una delle citazioni dei numerosi titoli di cui è intessuta la cinefilia “ossessiva” del regista e della quale fa uso a piene mani nelle sue pellicole), il racconto (simile a una ellissi ”vertiginosa” in cui lo spettatore deve avere il coraggio di lasciarsi trascinare senza opporre resistenza per poter assaporarne davvero l’essenza) si chiude poi tornado alla scena d’apertura con il malinconico nuovo incontro fra le due visto attraverso gli occhi di Therese (che, come già nel più esplicito La vie d’Adele,rappresenta il travagliato momento di “consapevole” verifica dello stato effettivo delle cose. Reincontrarsi – sembra voler dichiarare il regista - non solo aiuta a riscoprire anche se stessi, ma serve pure a constatare la persistenza di una ferita sempre aperta e sanguinante che non può più rimarginarsi). E’ questo uno dei momenti più felici e riusciti di una pellicola intensa capace di trasmettere allo spettatore attento, l’epica sottesa e la poesia sublime di un “amore proibito” e sofferente capace però di rigenerarsi.
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Eccellenti gli scenari visivi della pellicola curati da Judy Becker e Jesse Rosenthal, perfetti per esaltare e rendere palese il versante prettamente “romantico” di questa storia di presunta scabrosità trasgressiva, così come sono straordinari gli strepitosi costumi di Sandy Powell che utilizza magistralmente il verde e il rosa (ma un rosa volutamene delicato e “decadente”) quale cifra cromatica ideale per suggerire le disposizioni d’animo delle due donne e dipingere con adeguate pennellate, l‘elegante crepuscolarità di quell’America lontana. Il tutto, inserito dentro a una pastosa tavolozza di colori davvero molto variegata (splendida la fotografia di Ed Lachman) che passa da un verde e un azzurro che i filtri rendono quasi glaciali (evidente metafora della solitudini imposta a questo amore fortemente ostacolato), alle sfumature più calde dell’ocra e delle tinte pastello in generale, adoperate invece per esaltare il desiderio e la passione che circolano abbondanti dentro tutto il film.
L’elemento più importante e “trascinante” rimane però quello della stratosferica prova ’generosamente offerta da queste due splendide attrici che rispondono ai nomi di Cate Blanchett e Rooney Mara: la Blanchett – magnetica e perturbante più del solito – usa spesso sguardi languidi e al tempo stesso perentori, che riescono a conferire a Carol sottese vibrazioni di mascolina intensità, tali da farci ben comprendere il desiderio divorante che nutre per Therese sotto l’apparenza diafana da “dama” della bella società algida e altera allo stesso tempo e scossa dal travaglio interiore di essere alla fine costretta a scegliere fra le convenienze sociali e l’appagamento sentimentale; altrettanto intensa la Therese di Rooney Mara che lascia trasparire tutte le incertezze, i desideri, le titubanze, le inadeguatezze e le speranze, di chi ormai ha ha capito che può trovare il riconoscimento appagante di se stessa nell’amore per Carol..
Sorprende soprattutto l'empatia che si avverte all’interno delle loro prestazioni davvero di eccezionale rilevanza introspettiva che immagino sia frutto di un lungo, faticoso lavoro preparatorio fatto col regista, confermato da questa dichiarazione rilasciata a Roma in occasione dell'ultima Festa del Cinema: "Per permettere a Cate e Rooney di conoscersi e aderire ai loro personaggi così complessi, abbiamo ottenuto ben due settimane di prove, una cosa molto rara! Hanno trascorso del tempo insieme come fossero realmente Carol e Therese: hanno pensato alle scene, preso appunti modificando anche parte dei dialoghi. Ho condiviso con loro le immagini che ispiravano lo stile visivo del film; di solito mostro foto d'epoca, stavolta l’ho fatto utilizzando anche due pellicole: Little fugitive del 1953 (lo stesso periodo del film) ambientato a Coney Island e diretto da Ray Ashley, Morris Engel e Ruth Orkine e L'eclisse di Michelangelo Antonioni, uno dei registi che amo di più”.
Per entrambe dunque, una recitazione d’incandescente interiorità che lascia il segno (in positivo ovviamente).e tracce evidenti passato solitario e infelice.
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