Regia di Gabriele Muccino vedi scheda film
La carriera a stelle e strisce di Gabriele Muccino, da quasi due lustri (eccezion fatta per il nostalgico sequel Baciami ancora) stabilmente attivo in America, ha un problema che cambia nome ma non sostanza: la scrittura. Partoriti quasi sempre da penne acerbe, con curriculum di scarso o nullo peso, i copioni dei suoi lavori statunitensi peccano di un’ingenuità e di un’immaturità che di certo non abitano più il cinema del regista. Non fa eccezione lo script di Padri e figlie, ufficialmente proveniente dalla black list delle migliori sceneggiature rimaste orfane di set, ma talmente ingessato nei suoi personaggi bidimensionali e nella sua costante ricerca del ricatto emotivo da far desiderare che fosse rimasto nel cassetto. I piani temporali si intersecano per rendere espliciti, se non lapalissiani, i meccanismi che hanno portato la piccola Katie a diventare una giovane donna problematica: la bimba che nel passato resta orfana di madre e in balìa dell’affettuoso ma danneggiato babbo scrittore, nel presente diventa una ragazza incapace di credere nell’amore e nella possibilità di un legame duraturo. Muccino asseconda e infiamma con la sua macchina da presa febbrile ogni piega mélo, tenta di sopperire allo schematismo di una sceneggiatura telefonata (e alle prove debolissime degli interpreti del segmento presente, Aaron Paul e Amanda Seyfried) scavando il pathos nelle corse a piedi e in bici. Sfida il ridicolo, consapevole, e ne esce sconfitto.
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