Regia di Andrew T. Betzer vedi scheda film
Vagabondare, sì, vagabondare. Perdersi in un labirinto di realtà sconosciute, tutte bislacche, tutte inospitali. Due fratelli, l’uno ancora ragazzino, l’altro quasi adulto, fuggono attraverso la campagna americana, subito dopo aver involontariamente causato la morte di una ragazza. Hanno pochi soldi, nessuna meta, e tanta voglia di sperimentare la vita in piena incoscienza, e senza porsi alcun limite. L’idea di partenza è ottima per iniziare un racconto la cui forza risiede nella sua natura informe e ribelle: è il rozzo zigzagare di una storia scribacchiata di getto, con creativa noncuranza ed appassionata instabilità. Il film si potrebbe definire visionario, se le sue immagini non decidessero capricciosamente di volare basso, mescolandosi alla piccola nube di polvere sollevata dal passo trascinato di un ordinario squallore. Solo da questa prospettiva, vicina al fondo e ad altezza di bambino, l’esistenza può apparire come un gioco che, sfuggendo subito al controllo, diventa d’un tratto assurdamente crudele e maledettamente serio. Il discorso riguarda l’amore, il sesso, la famiglia, la sopravvivenza, gli istinti naturali, la guerra. Ogni risvolto dell’umanità risulta ambiguo, magari travestito di gioia e divertimento, di ideali e leggenda, ma in fondo impastato di sostanze barbare, estratte dalla onnipresente gramigna della banalità. Qualsiasi cosa, in un lampo, può diventare futile o persino orribile: un pomeriggio passato a scherzare su un prato, una battaglia combattuta per finta, un padre falegname, un’avventura sentimentale. Il destino compie la sua missione spiazzante frastagliando i contorni della realtà, fino a renderla inafferrabile, perché insopportabilmente ruvida. L’andamento di questo film, soggetto a continue sbandate, rallentamenti, accelerazioni, a volte sbrigativo e superficiale, a volte pedantemente prolisso, pare voler riprodurre il moto di un nonsenso primitivo, che non conosce le demenziali frenesie costruite a tavolino, ma è, semplicemente, in balia della rudimentale follia del caso. In questo anomalo road movie, cupamente barcollante e burberamente snob, l’imprevisto è l’ingrediente base della normalità, in uno sviluppo temporale senza regole, nel quale nessun istante si preoccupa di guardare in faccia il precedente. Ciò produce un composto complessivamente indigesto, ma pieno di gustose sorprese, se sbocconcellato brano a brano, assaporando le singole, selvatiche primizie di cui è formato. Se la scrittura non è fluida, è però assolutamente libera, affrancata sia dal vincolo letterario di essere efficace, sia dalla norma estetica che la vorrebbe sagomata secondo il plastico profilo delle emozioni. Young Bodies Heal Quickly porta in un’opera live action la logica spregiudicata del cartone animato, in cui gli episodi si aprono e si chiudono come se niente fosse, e tutto ciò che si distrugge può rinascere in un attimo. Ai tanti perché infantili si risponde spesso perché è così. E questa è anche la replica, secca e un po’ cinica, con cui questo film intende liquidare ogni nostro tentativo di obiettare al suo carattere di ermetica e smargiassa raffazzonatura.
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