Regia di Frédéric Tcheng vedi scheda film
Introdotto dalla voce narrante, per interposto attore, del fondatore della celeberrima maison, il documentario inizia come un thriller: le parole del couturier, riprese dalla sua autobiografia Christian Dior & moi, parlano di un perturbante sdoppiamento identitario, quello fra l’uomo e l’icona della moda. E tra immagine pubblica - lo scintillio di vetrine e flash - e lato privato - il brusio incessante e gli intoppi di un’azienda - si muove l’opera seconda di Frédéric Tcheng, accolto nella sede di Dior per seguire l’insediamento di Raf Simons, dal 2012 direttore creativo dell’haute couture della casa, e la nascita della sua prima collezione. Settimane frenetiche che il regista guarda da un punto di vista poco glamour: quello degli artigiani dalle dita miracolose, per la maggior parte donne (alcune al servizio della maison da 40 anni), che confezionano abiti stupefacenti a partire da schizzi su carta. Il dietro le quinte rivela che il potere è, letteralmente, nelle loro mani, più che in quelle degli stilisti, mostrando i meccanismi di un’azienda che, nonostante il prestigio, non può permettersi di prescindere dalle ordinazioni di clienti facoltosi. E mette in luce paradossi curiosi e demistificanti, come la diffusa incomprensione linguistica (le operaie parlano solo francese; Simons, fiammingo, lo mastica male; spesso le cruciali transazioni su tessuti e colori avvengono tramite interprete) e i budget pericolanti. Non tutta magia, insomma, nonostante la passerella finale.
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