Regia di Ivan Bormann, Fabio Toich vedi scheda film
L’anarchismo non si esprime attraverso l’ideologia di un movimento. Si realizza solo attraverso la vita del singolo. Qualcuno, all’inizio del film, così afferma, riferendosi a lui. Umberto Tommasini era un fabbro, figlio di un facchino, nato nel paese friulano di Vivaro, ma trasferitosi a Trieste agli inizi del Novecento. Ed era un uomo che aveva capito cosa dovesse essere la libertà: un potere vero che nasce da dentro, e che lotta contro quello, artificioso, imposto dall’esterno. Una forza che, però, poteva vincere solo se esercitata dal gruppo, unito dallo stesso desiderio, animato dagli stessi ideali. Umberto è morto nel 1980, ma tanti lo ricordano ancora. Prima che se ne andasse per sempre, alcuni hanno insistito affinché raccontasse loro la sua storia, e la consegnasse alla carta, onde evitare che andasse perduta. L’autobiografia intitolata L’anarchico triestino, su cui è basato questo documentario, è scritta in dialetto. Una testimonianza sincera e spontanea come tutti dicono fosse quel soldato, che ha impugnato le armi durante il primo conflitto mondiale, perché così gli era stato ordinato, e durante la guerra civile spagnola, perché così gli aveva suggerito la coscienza. Per dirla con lui, ci si può ritrovare a combattere per mera vigliaccheria, per non aver avuto il coraggio di disertare. Un errore che Umberto ha commesso una volta sola. Ritornato dal fronte, ha cominciato a piazzare i suoi no nei posti giusti, con grande coerenza e senza paura. Ha saputo reagire quando si è visto circondato dalla disumanità: quella delle ingiustizie sociali, negli anni dell’industrializzazione, e quella del totalitarismo, nella Russia di Stalin, nella Spagna di Francisco Franco. Non è mai diventato un leader, nemmeno un esponente di partito, perché ha portato avanti il suo progetto stando sempre in mezzo alla gente, ai compagni trattati da pari, agli infelici accolti come nuovi amici. Il padre aveva creato una biblioteca pubblica, in una delle stanze della sua casa di campagna. I contadini erano arrivati a frotte, da tutta la regione, per poter leggere o ascoltare quei romanzi, conoscere le storie di persone come loro, di poveri minatori sporchi di carbone, lavati dalle mogli con una brocca d’acqua. Certe immagini, allora, facevano scandalo agli occhi dei benpensanti. I preti, dal pulpito, anatematizzavano quella letteratura come opera del demonio. Questa visione della verità nuda, che, nella sua semplicità, risulta sconvolgente, riassume la gioiosa provocazione di un’anima indipendente, amante della vita non secondo formule teoriche inventate a tavolino, bensì attraverso un’emozione sgorgata dal cuore, nata per tradursi subito in solidarietà. Nell’esistenza di Umberto, la necessità di agire ha sbarrato la strada ai vuoti virtuosismi della parola: il libro che ci ha lasciato è il ritratto fedele di ciò che è accaduto, è il disegno che della realtà che si traccia poi, a mente fredda, quando i significati si sono compiuti, ed interpretarli è solo un atto di onestà intellettuale. Il film di Ivan Bormann e Fabio Toich non concede spazio ai misteri, alle controversie, alla ricerca di chiavi di lettura che contestualizzino il vissuto nella cornice delle correnti di pensiero, delle credenze religiose, degli orientamenti politici. Umberto Tommasini ha dato sé, per quello che era. O meglio, per quello che sentiva di essere. Un operaio che, con le sue mani, poteva contribuire a forgiare il suo piccolo pezzo di mondo.
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