Regia di Carlo Verdone vedi scheda film
Un film assai divertente, per quanto eccessivo e semplificatorio, a volte, su un tema classico: la repressione della libido, in nome di superiori valori morali, che poi si rivelano posticci e fasulli. Fattori di successo risarcitorio e sublimativi, e perciò non davvero efficaci contro la nevrosi scatenata dalla repressione medesima.
Divertentissime più scene: come quella dell’amante che cade dal tetto. O il doppiaggio dei film porno: uno dei classici incipit ad effetto di Verdone. O le grottesche scene familiari attorno alla gelosia, per quanto verosimili. O il testa o croce, per decidere chi andrà con la desiderata che poi non si concede a nessuno dei due, con la moneta che finisce nello spezzatino.
Qui Verdone è attaccato dalla critica perché contrario al bigottismo: questi uomini di mezza età, rivali in amore, già rivali perché sposati con due sorelle, si lasciano andare. Sono stanchi di una routine trista, che però dà loro la irrinunciabile solidità economica, tanto quanto la rispettabilità sociale, che in Italia passa soprattutto in chiave cattolica. Questa li fa sentire “qualcuno”, anziché i “nessuno” che (a buon diritto) sospettano che molti altri li considerino. Verdone non risparmia, giustamente, critica alla creduloneria cattolica del miracolo, così come a quella non cattolica della cartomanzia.
Riprendendo i limiti cui si faceva cenno: è un po’ eccessivo il modo in cui i due cognati si lasciano andare. Scade nel caricaturale. Specialmente nel personaggio di Castellitto, che pure è un ottimo attore, qui un po’ sottovalutato, costretto a parossismi.
Eccessiva è forse anche la raffigurazione dei gaudenti in casa di Alice. Molti sono come lei: sconclusionata, arrogante, in cerca di sempre nuovi diversivi, il più potente dei quali è l’amore. Un amore basato assai su strumentalizzazione, inganno, pretesa della propria superiorità similfeudale. In una parola, sull’arroganza: il personaggio, perfettamente intrepretato dalla Muti, in linea con tante bone/zoccole (si perdoni l’espressione, che però è di gran lunga la meno inadeguata a quello che è quasi un archetipo della storia) della galleria verdoniana, è legittimamente insopportabile, e si odia e si fa odiare per questo. Infatti è una depressa cronica. Eppure è qualcuno di irrinunciabile per degli sfortunati maschi, che, per colpe di altri (genitori, mogli, fidanzate e accolite varie…), nonché per le colpe della propria pavidità, si sono abituati alla frustrazione, all’inibizione. In una parola: all’abitudine di volersi più male che bene, su aspetti fondamentali della vita.
Sarà anche eccessiva la libertà delle sere di quelle feste, ma non così impossibile nei grandi centri urbani come Roma, notoriamente meno rattristanti; e comunque un contraltare credibile della repressione cui sono, e si sono, condannati. Non può non far sorridere il modo cui i due rivali/parenti interpretano la “botta di vita” polarizzata attorno allo stesso oggetto del desiderio: le meches di Castellitto, l’orecchino di Verdone. Il tutto, erede degli esteticamente terrificanti anni ’80, condito da camicie spaventose.
Il film ha ritmo, coralità di buona interpretazione, spasso. E, al di là di certe apparenze, ha profondità, tanto psicologica quanto storica, per come avverte i contrasti dell’epoca.
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