Regia di John Carpenter vedi scheda film
Eccoci arrivati, in quest’excursus filmografico volutamente anacronistico, a Starman, pellicola del 1984.
Dopo il successo commerciale di Christine - La macchina infernale, Carpenter accetta un film su commissione, che potremmo definire un’autoriale commistione fra i suoi stilemi, come la poetica dell’amore fra diversi e l’aspra, dura critica al sistema militare americano, e la strizzatina d’occhi, necessaria e pressoché obbligatoria, verso quel grande pubblico che l’aveva tradito, in termini d’incasso, per le sue due precedenti pellicole. Arrivando a un compromesso ineludibile per potersi permettere di finanziare progetti assolutamente più personali, non rinunciando però, come detto, al suo sguardo d’autore.
Starman diventa allora il film più odiato e bistrattato, potremmo dire, dai carpenteriani e, come poi parimenti accadrà con Grosso guaio..., guardato immediatamente con sospetto dai suoi detrattori. Inutile dire che non è di certo il suo capolavoro o la sua opera migliore e più compiuta, e le scelte imposte dalla produzione hanno avuto il loro rilevante peso sul risultato finale, inficiando quello che poteva essere, e ne aveva tutti i crismi, un magnifico film. Che però rimane grande e molto poetico, merito anche della musica di Jack Nitzsche, candidata al Golden Globe.
Qui Carpenter cambia subito rotta, devia dalle consuete sue traiettorie stilistiche e c’immerge in un’atmosfera nostalgica temperata in un tiepido, lirico romanticismo. Un’astronave aliena viene dirottata da un attacco terrestre ed è costretta a un atterraggio di emergenza.
L’alieno abbandona la carcassa della sua astronave e si mette alla ricerca di qualche forma di vita umana su cui trasmigrare. Giunge ai piedi della casa di Jenny Hayden (Karen Allen), una vedova che ancor soffre immensamente per la morte del marito e, infatti, passa inconsolabilmente il tempo a rivedere vecchi filmini in cui lei e il suo defunto marito si amavano melodiosamente sulle note delle loro canzoni preferite.
L’alieno, circospettamente, quando lei sta per addormentarsi, s’infiltra in casa, avvista una foto in cui lei e il marito sono felicemente l’una nelle braccia dell’altro, al che, come se dall’ologramma trasfigurato del marito volesse, diciamo, espatriare nel corpo del consorte defunto, ne fa una fotografia genetica, per appurare se trasferirsi in quel corpo gli possa convenire. Sì, l’uomo (Jeff Bridges) era robusto, in salute, adatto alla sua umanizzante metamorfosi. Ecco allora che s’incarna dapprima in un feto, nel neonato del marito materializzatosi sul pavimento e lentamente, a vista d’occhio, sotto lo sguardo dell’adesso sveglissima moglie, cresce progressivamente, assumendo le sembianze del marito. Ne diviene morfologicamente la sua quasi perfetta copia clonata. Una mirabolante trasformazione resa esemplarmente dagli effetti speciali del mago dell’animatronica Rick Baker, qui al servizio dell’estro visionario di Carpenter. Un prodigioso effetto speciale che all’epoca ebbe il suo notevole impatto e che, rivisto oggi, potrebbe apparire a noi smaliziati uomini del nuovo millennio senz’altro datato ma, ricordiamoci, eravamo nei primi anni ottanta, in piena era analogica e il morphing e la computer graphics stavano soltanto facendo i loro primi passi. E, comunque, anche ora che affondiamo gigantescamente in piena epoca informatico-computerizzata, quest’effetto speciale sorprendentemente continua a stupefarci. Incantevole.
L’alieno come ha fatto a riprodursi nel corpo dell’uomo morto? Dal DNA di una piccola ciocca di capelli?
Lo scopriremo lungo l’arco del film o forse non lo sapremo mai. L’alieno rapisce dunque la donna, senza però usarle violenza, addomesticandola a livello subliminale perché lei n’è terrorizzata ma al contempo rivede in lui il marito morto e ciecamente se ne fida. Proverà a fuggire ma poi, come travolta da un’irrazionale sentimento di attrazione amorosa, facilmente comprensibile, visto che l’alieno personifica esteticamente il suo perduto, insostituibile marito, desisterà, si piegherà affettuosamente al suo volere e lo assisterà nel suo viaggio di ritorno. Innamorandosene completamente. Ma lui deve lasciarla perché altrimenti morirebbe e in Arizona i suoi amici alieni lo stanno aspettando. E allora Starman e la donna intraprenderanno un’avventura, non priva d’imprevisti, per portare a termine la missione.
Ma il Governo è sulle tracce di Starman, Starman rappresenta l’incarnazione reale dell’esistenza della vita aliena nell’universo. E dunque la Scienza, personificata dal burocratico Mark Shermin della polizia federale (Charles Martin Smith), non può lasciarsi scappare, per nessuna ragione al mondo, un’occasione di questo tipo, anzi, potremmo dire, non può assolutamente rinunciare a quest’incontro ravvicinato del terzo tipo. Deve far sì che si concretizzi. Costi quel che costi. A costo addirittura di uccidere l’alieno. Lo scopo primario è quello di analizzarlo e vivisezionarlo, vivo o esanime, ferito o morto ammazzato che sia.
Sarà un viaggio intervallato da momenti di fatato lirismo, come in alcune delle scene più riuscite e commoventi dell’intera pellicola. Quando Starman, in un’area di servizio, ai piedi di una tavola calda, risveglierà un cervo abbattuto da un bruto cacciatore e la donna, assistendo meravigliata ai suoi poteri divini, se ne turberà infatuata. Estaticamente e ipnoticamente attonita. Oppure quando Starman confiderà alla donna che aspetterà un bambino da lui.
E Karen Allen è stata eccellente nel tratteggiare il suo dolente personaggio difficile di vedova irrimediabilmente ferita dalla tragedia della morte del marito, sospesa tra l’intimo dolore trattenuto, la moderata euforia dinanzi agli eventi incredibili che le accadono attorno, e via via sempre più fragilmente sedotta e affascinata da questo marziano identico fisicamente al suo ex consorte e contemporaneamente così diverso. Una superba prova d’attrice. E ci spiace che la Allen sia stata così spesso emarginata da un’Hollywood cinica che mai davvero ha saputo riconoscere la sua delicata bravura. Anche Jeff Bridges è bravissimo, e infatti è stato candidato all’Oscar, ma non era poi così complicato, tutto sommato, caratterizzare un personaggio stralunato e, appunto, alieno, buffo e tenero, robotico e con lo sguardo perennemente esterrefatto e perso nel vuoto. La cosiddetta prova recitativa che, a prima vista, potrebbe sembrare stupefacente e invece è molto più facile di quel che possa apparire. Non occorre avere un pozzo di scienza attoriale né spiccate qualità per interpretare un personaggio che, già di per sé, è simpatico, farsesco e strambo. Basta un pizzico di manierismo e una bella faccia tosta come quella del Bridges di quegl’intrepidi anni allegri della sua giovinezza matura. Ma rimane una prova abbastanza toccante. Alla fine il maledetto Governo cesserà la testarda, ottusa guerra e Starman volerà via come un angelo sceso sulla Terra destinato a un aldilà adatto alla sua alterità. Forse migliore della Terra, forse peggiore. Sulle note della colonna sonora dolcemente malinconica e trasognante.
Da rivedere, da riamare, da sciogliere nelle emozioni ingenuamente sobrie, profumate di poesia semplice e infantilmente morbida.
di Stefano Falotico
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