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Torneranno i prati

Regia di Ermanno Olmi vedi scheda film

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La recensione su Torneranno i prati

di OGM
8 stelle

Il bianco e nero non è quel che sembra. È assenza di luce, non di colore. È la vista impastata di penombra, che odora di stantio; è il polveroso sedimento della vita che ha perso di significato, che ha rinunciato a se stessa, che sa di non avere scampo. Ermanno Olmi entra col pensiero in uno spazio invisibile, tanto remoto da essere inesistente: un buco scavato sotto la neve, al margine di un bosco, in cima a una montagna. È la nicchia che accoglie il respiro residuo di un manipolo di superstiti, asserragliati contro un nemico che li ha già accerchiati, e che non tarderà a dar loro il colpo di grazia. La battaglia più atroce è quella che non ti consente di abbracciare le armi; è quella che si consuma nell’attesa, mentre la mente non si può distrarre dalla morte se non concentrandosi sulle disgrazie presenti: il freddo, la malattia, la fame, la nostalgia per le cose e le persone che forse non si rivedranno mai più. Uomini come rifiuti: sepolti in una trincea del fronte nordorientale della Grande  Guerra, fagotti di corpi buttati sulle brande in mezzo a fotografie dai bordi strappati, tozzi di pane, brandelli di frasi che si fanno faticosamente strada attraverso il silenzio. Il ritmo è lento come il tempo che non passa mai. Come le ore che si protraggono all’infinito, mentre basta un attimo perché arrivi un proiettile ed un cuore si fermi. La verità è inafferrabile, e la si coglie solo quando ormai è troppo tardi, quando un dramma sfonda la barriera dell’oltre, e tutto, d’un tratto, diventa chiaro. L’oblio è il velo che copre ciò che non conosciamo: è lo schermo dietro cui si nascondono le grandi rivelazioni, ma anche il mondo degli ultimi, di cui non si parla oppure si parla a sproposito. Il cinema di Olmi ha sempre cercato di educarci alla necessità di tacere e ascoltare: la nostra parola deve farsi da parte, mentre apprende i linguaggi dell’altrui dolore. Questo film ci propone quello dei soldati allo stremo delle forze, che sono immobili mentre, con l’immaginazione, viaggiano verso luoghi ignoti, in cui niente sarà più come prima: un futuro in cui loro mancheranno, oppure saranno stati sostituiti, dimenticati, persino disprezzati. L’erba ricrescerà, e la loro sofferenza sarà sembrata inutile.  La riflessione sulla storia che insegna, ma dalla quale nessuno impara, è l’ennesimo atto d’accusa contro l’indifferenza di un progresso che si bea di guardare lontano, ma è incapace di guardarsi alle spalle. In tempo di pace, è facile rivolgere gli occhi verso un orizzonte che si presenta luminoso e sgombro. Ci sono invece momenti in cui avanzare significa esporsi ad un pericolo micidiale: là fuori, il cielo è solcato dai razzi traccianti,  attraversato dagli echi degli spari, pieno di crepitii che preludono a una fine imminente. Allora, per resistere, si è costretti a ritornare indietro, a quello che si era, a quanto si è lasciato a casa, ai sogni che sono stati uccisi. Nel film - come nel racconto La paura, di Federico De Roberto, a cui esso si ispira – ciò che cresce, ed è esplicitamente scandito da un asciutto conteggio, è solo il numero dei caduti. Il resto ha tutte le ragioni per non volersi muovere, per restare attaccato al letto, a mirare il soffitto, sciorinando le sillabe una alla volta, come quando non si sa come dire, o non si ha voglia di essere troppo sinceri. Ognuno trattiene come può la propria umanità, prima di darla in pasto ad un orrore che giunge abbondantemente annunciato, eppure coglie le sue vittime sempre di sorpresa. Anche la ragione è ferma ai blocchi di partenza, che qui coincidono con le porte dell’inferno: ci si aggrappa con tutte le forze a ciò che rimane dell’al di qua, perché, oltre quella soglia, la visione è mostruosa. La stessa poesia subisce una terrificante metamorfosi: il larice che, d’autunno, sembra ammantarsi d’oro, d’inverno sarà giallo di fuoco. Anche il canto più triste sarà costretto a spegnersi, quando l’anima sarà troppo sconvolta per piangere, o anche solo per far finta, in un modo che risulti credibile. Il terrore è un fremito che annienta con aperta crudeltà, pur smorzando i suoni, pur senza fare rumore. È una mano tremante che passa sulla terra un gelido colpo di spugna,  confondendone i tratti in una scia di nebbioso sgomento.

 

“Finché la minaccia è imprecisata, nello scoppio d’una granata che non si vede arrivare, in una raffica di mitragliatrice o in una scarica di fucileria inaspettata, che possono e non possono colpire, il coraggio riesce ancora facile; ma se la morte è lì, acquattata, vigile, pronta a balzare e a ghermire; se bisogna andarle incontro fissandola negli occhi, senza difesa, allora i capelli si drizzano, la gola si strozza, gli occhi si velano, le gambe si piegano, le vene si vuotano, tutte le fibre tremano, tutta la vita sfugge; allora il coraggio è lo sforzo sovrumano di vincere la paura; allora la volontà deve irrigidirsi, deve tendersi come una corda, come la corda del beccaio che trascina la vittima al macello.”  (da La paura di F. De Roberto)

 

Alessandro Sperduti

Torneranno i prati (2014): Alessandro Sperduti

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