Regia di Ermanno Olmi vedi scheda film
La guerra è una pianta maligna che attecchisce ovunque. Ermanno Olmi la fa rivivere e la rivisita in un suo episodio o ipotetico frammento, costruito sui ricordi di quello che suo padre gli raccontò in proposito da bambino.
Lo stesso atteggiamento, le medesime drammatiche tematiche, immagino, che occuparono mio nonno - lui proprio uno dei “ragazzi del '99” - nel raccontare a me bambino, alcuni sprazzi dei suoi drammatici ricordi di gioventù, magari addolciti e attenuati dall'affetto che un progenitore dolce e premuroso nutre nei confronti del figlio di suo figlio: ma il ricordo dei momenti cruciali di ogni singolo conflitto a fuoco, del rumore assordante della battaglia a cui si contrappone la calma che regna dopo di essa, e poi tutto il fumo che copre ogni cosa, e dal quale cominciano a trapelare i primi sommessi lamenti dei feriti, a mano a mano piùforti, acuti e strazianti: il grido di ragazzi-bambini come era lui stesso ancora adolescente: giovani che nel delirio della sofferenza cominciano ad urlare la parola “mamma” come ultimo pensiero per una salvezza ormai perduta e vana: questa è la bestialità della guerra, che ritroviamo splendidamente rappresentata qui in particolare nell'episodio di una notte in trincea di un plotone d'assalto nelle Alpi di Nord Est, proprio al confine tattico con l'avversario austriaco, che tenta di espugnare proprio quel punto strategico tanto importante.
Tutto attorno il gelo di un inverno fuori dal comune, con i suoi oltre quattro metri di neve che copre persino gli alberi rendendoli irreali “come alberi di Natale”.
Seguiamo innanzi tutto un soldato che nel giungere col mulo per portare la razione di cibo, intona con la sua voce gradevole una canzone nel proprio dialetto meridionale: una melodia che si spande tra il panorama immacolato di una valle altrimenti paradisiaca, non fosse per quello schifo di guerra che costringe tutti ad attendere una morte lontano dai propri cari, e che riceve i consensi estasiati sia dei commilitoni affamati, ma rapiti dalla melodia, sia dei nemici in agguato, che allentano, almeno per qualche istante, la loro ferrea presa di posizione.
Poi un Colonnello sopraggiunge per portare in trincea un giovane “tenentino” col viso da bambino, non fosse per quei baffetti stentati che si ostina a far crescere. Un letterato che il fronte ha chiamato a sé al pari di tutti gli altri coetanei, e che si appresta, titubante ed inesperto, a prendere le redini del comando di quel che resta della truppa, decimata anche da una virulenta forma influenzale proveniente dai Balcani (“dai Balcani non arriva mai nulla di buono”, interviene rassegnato il tenente febbricitante che il giovane dovrà sostituire).
Poi la scoperta di un probabile attacco dal sottosuolo, col nemico che sta aprendosi un varco con le mine dal sottosuolo giù a valle. La guerra e le sue snervanti attese, fatte apposta per tornare con la mente verso i propri cari a casa, per penarsi nell'ansia e nell'attesa di ricevere notizie e lettere che possano rassicurarli; uno di loro si mette in coda per la posta ma nessuno mai si degna di scrivergli: la moglie l'ha tradito ed abbandonato, e trova un tenue conforto nutrendo con palline di mollica di pane un topino che sbuca furtivo ma per nulla impaurito da una fessura sotto la branda.
L'attacco nemico arriva imprevisto e devastante: si contano i morti e si seppelliscono tra la neve, in attesa che il disgelo riporti a vivere i prati.
Uno dei più grandi cineasti viventi italiani (per me senza esitare il più grande) affronta finalmente dopo tanti rimandi un tema che gli è sempre stato a cuore; episodi indelebili nella memoria di chi ha vissuto nell'Altopiano (di Asiago) nei primi decenni del '900. Anziché adattare un romanzo dell'amico Mario Rigoni Stern (da anni si parlava della tentata o desiderata trasposizione cinematografica de "Il sergente della neve" - altra guerra, medesime o molto simili situazioni in capo ai deboli, coloro che devono solo obbedire agli ordini e farsi ammazzare - da parte del noto cineasta bergamasco, trapiantato in quel di Asiago, nelle zone natie dello scrittore), Olmi rielabora un singolo episodio lungo tutta una nottata di luna piena e nebbie a fondo valle.
Il risultato è straordinario per la capacità, innata nel regista, di dar voce ai dialetti e al linguaggio semplice della vita contadina e montana; per la capacità, ora esemplare, di abbandonare orpelli narrativi e suppellettili registiche per abbandonarsi all'essenziale, alla scarna essenza della rappresentazione di una tragedia immane; di un genocidio di innocenti mandati allo sbaraglio a morire di freddo, stenti e pallottole nemiche.
La splendida fotografia di Fabio Olmi colora di un livido che è poco più di un bianco e nero, un paesaggio sontuoso ma genuino e paradisiaco, non fosse per quel filo spinato che ferisce pure distese impressionanti di neve, lasciando al vento il suono lontano ma allarmante dei campanelli appesi a quel rovo contorto e sinistro che serve solo a delimitare confini e rendere infinito un conflitto che pare non finire mai.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta