Regia di Ermanno Olmi vedi scheda film
Guardare Torneranno i prati è come accarezzare con mano liscia e delicata l'inferno, e ritmicamente avvertire i suoni e i rumori del calvario umano attutiti dalle viscere della terra. Il mondo della trincea è per Olmi un mondo di intima disperazione, il luogo in cui il frastuono dei mortai fa il paio con il dramma dell'esistenza. I rumori della guerra sono lontani, vanno lentamente avvicinandosi, ma il film di Olmi è soprattutto un film di attese e di contemplazioni, di vite distrutte e incenerite sotto cumuli di terra e di neve. Il fatto che torneranno, un giorno, i prati a sostituire i metri di neve accumulata sulle colline italiane al fronte di guerra non è una speranza nutrita nei confronti di un futuro più roseo, ma l'incombere mesto e inquietante della ciclicità della natura, che provvederà a ricostituirsi gettando nell'oblio chi fu testimone della di lei avvenuta distruzione. La regia di Olmi è una sokuroviana immersione negli sguardi e nei tormenti, non si appaga di alcun attimo di quiete ma circonda i vuoti di tremori e di ansie, virando le sue immagini al color seppia e quindi facendo sbalzare sulla superficie monocroma delle sue immagini tutte quelle incertezze e quelle paure che lo stato delle cose impone e richiede. La Grande Guerra, un po' il percorso iniziatico verso un funereo canto di sconfitta, ritualmente evocato dai sogni falliti e dai piccoli lampi di fantasia che si schiudono dai poveri e umili soldati: un albero che improvvisamente diventa dorato, e che brucerà nel fuoco dei cannoni; i ricordi di un passato che va a poco a poco appannandosi per lasciare spazio alle piccole ricorrenze del presente, come un ratto la cui abituale presenza diventa quasi di consolazione; oppure un canto che magari vada direttamente a colpire il cuore penetrando più a fondo di qualsiasi proiettile di baionetta. Pochi gli appigli cui aggrapparsi per le vittime di un disastro che silenziosamente si insinua nel vuoto esistere di uomini priv(at)i delle piccole bellezze della vita. Olmi osserva quegli uomini con un incredibile sguardo rispettoso, partecipe, empatico e mai sensazionalista, incredibilmente pudico e commosso tanto da non lasciarsi mai andare alla possibile drammaticità degli eventi, ma continuando a contemplare più interessato ai dettagli e alle sensazioni che alla maniera in cui posiziona la macchina da presa: un gesto di geniale dissimulazione, quello di porre per esempio la telecamera fin troppo bassa, con le teste dei personaggi in scena tagliate dal bordo superiore dello schermo. E' un modo per riprodurre l'asfittico senso di claustrofobia delle trincee, e il sussurro criptico del buio della morte sempre più vicina, sempre più pronta a distruggere dal di dentro, ad annichilire e ricondurre a un suo stato di sofferenza primitiva la condizione umana. Provvedendo con il botta e risposta del silenzio e del rumore a mostrarsi presente anche quando in evidenza non c'è.
Il paesaggio di Torneranno i prati è splendido e terribile, i suoi irreali chiari di luna sembrano dipingere il senso stesso di una indifferenza esistenziale che non si scuote né si scomoda di fronte alla terribile distruzione. Il caos delle bombe e delle esplosioni deflagra sì il silenzio mai quieto della trincea, ma sembra anche essere lo spiraglio fumante di qualcosa di più vero, di più sotterraneo: l'urlo dell'umanità è sempre presente, basta solo saperlo mostrare. Per questo, quando il film finisce, e solo il vittimismo stona con l'autoriale ricostruzione di Ermanno Olmi, sembra di avere ancora le orecchie tappate, la mente stordita e il cuore inesorabilmente stracciato. Le accuse oggettive potranno anche dimezzare la qualità cinematografica dell'ultimo film del regista italiano, ma l'esperienza umana, seppur della breve durata di 70 minuti (esclusi i titoli di coda), è da cinque stelle, per come si annida nel ricordo e non si stacca mai.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta