Regia di Ermanno Olmi vedi scheda film
Se ci sono i film è perché non servono le parole per spiegarli. Archetipale e primitivo, Torneranno i prati di Ermanno Olmi è una favola nera di disarmante bellezza. Il vero grande capolavoro del cinema italiano del nuovo millennio.
Tutti gli elementi, narrativi come stilistici, i referenti, le fonti e le intertestualità varie fanno di questo film un racconto esemplare e senza moralismi sull’assurdità della guerra e fanno della trincea un non-luogo buzzatiniano, cronòtopo sì storicizzato, ma altrove mitico declinato in locus horridus. È dopotutto un horror dell’anima Torneranno i prati, con i suoi luoghi oscuri, la monocromia grigia, il labirinto informe dell’architettura interna e la sua ambientazione claustrofobica – la trincea dell’ultimo avamposto italiano al confine con il nemico sull’Altopiano di Asiago nel 1917. A conferma dell’archetipo ci sono opere letterarie come Iliade, Odissea, Eneide e la Commedia di Dante in cui la presenza di foreste oscure, alte montagne, rupi ricoperte da selve, laghi, fiumi e ruscelli dalle acque stagnanti, labirinti, sotterranei e cunicoli, mostruosità varie che lì hanno la loro tana suggerisce il valore simbolico con cui personaggi e ambienti sono messi in strettissima relazione. Anche in Torneranno i prati, con la trincea e la sua labirinticità, l’oscurità e le deformazione di ombre e figure, la selva e le alte montagne che la cingono e la isolano, il topos topologico ribadisce la sua forza evocativa. L’orrenda solitudine del luogo infernale è così il tema archetipale del capolavoro olmiano connotato poi, con il cronòtopo della Grande Guerra e le coordinate culturospecifiche del testo e dell’ambientazione, come racconto mitico, favola nera di un occidente in crisi con se stesso.
Liberamente ispirato a La paura, racconto bellico e antimilitarista di Federico De Roberto del 1921, in Torneranno i prati rivive molta altra letteratura. Si cita Albert Camus: se vuoi che un pensiero cambi il mondo, prima devi cambiare te stesso; viene chiamato in causa Giobbe: “dio infame” si fa scappare uno dei personaggi, e se non è il “porcodio” di Bellocchio in L’ora di religione (2002) rappresenta con tenerezza il socioletto popolaresco dei personaggi dandogli una dignità che supera la distanza diastratica e come il Giobbe dell’Antico Testamento si ribella a dio, forse evocandolo, forse sfidandolo, sicuramente segnando questa volta sì una distanza, etica e umanista, come le parole sempre di gusto popolaresco di un altro soldato che sconsolato si chiede “non ha ascoltato suo figlio in croce, vuoi che ascolti noi cagni?” e così, a ben poco serve la figura del cappellano che benedice li morituri, è solo una burattino, la parodia di un meccanismo sterile; inoltre gli echi buzzatiani de Il deserto dei Tartari rivivono nell’attesa estenuante e nella presenza/assenza del nemico austriaco, percepito solo da suoni – voci, movimenti, fruscii, ronzii inquietanti che arrivato dalla roccia madre – e mai visibile all’occhio dei personaggi e dello spettatore; va anche notato come la cadenza del testo, pur preservando la riconoscibile poetica olmiana di stupore e lirismo, ricorda un altro gigante della letteratura di montagna come lo è Mario Rigoni Stern; e come l’antimilitarismo di De Roberto va ricordata la protesta antimilitare pura e senza condizioni che fece Igino Ugo Tarchetti nel 1866 con Una nobile follia, romanzo ben più importante di quelli accettati dal canone e insegnati sui banchi di scuola, compresi quelli del Manzoni e di De Amicis a cui tra l’altro il governo chiese i Bozzetti delle vita militare nel 1868 per contrastare proprio l’azione perturbante del capolavoro tarchettiano.
La messa in scena è una delle grandi forze della pellicola. Il profilmico è sì curatissimo nel dettaglio, ma non scade mai nella semplice decorazione posticcia. C’è qualcosa di reale in quegli ambienti, in quei vestiti lerci e luridi, in quella mobilia di fortuna. C’è la verità del materico. E allo stesso modo, i volti scelti per interpretare i personaggi di questa nuova favola olmiana, sono volti comuni che sembrano appartenere a quell’ambiente. Sembrano essere usciti da quella terra, da quelle materie di cui son fatte le “cose”. Anche due dei volti più riconoscibili, Claudio Santamaria e Alessandro Sperduti, non stridono nella rassegna delle umanità messe in scena dal Maestro. Il primo, diretto con mestiere, sa stare al suo posto e si fa ombra tra le ombre. Il secondo, il cui monologo finale con sguardo in camera è una delle preziosità del film, fa della sottrazione attoriale il carattere principale del suo personaggio e diventa anche lui una figurazione archetipale come tutti gli altri personaggi che non rivivono in un nome, bensì in una tipizzazione. Abbiamo il Maggiore (Santamaria) e il Tenentino (Sperduti) e poi il Capitano, il Conducente di mulo, l’Attendente, il Dimenticato, il Sergente, il Caporale, la Vedetta e così via.
Restando sempre al profilmico, la messa in scena è volutamente teatrale, dal tono dimesso, con un’impostazione straniante, quasi da racconto allegorico. La coreografia delle scene è ispirata. La sua architettura è impostata sul gioco prossemico tra attori, oggetti e ambienti. È bandita la zona pubblica e tutto vive, si fa e si disfa tra la zona sociale e quella intima. La lunghezza di un braccio sembra essere l’unica unità di misura possibile nel teatro della sofferenza intimale. La maestria con cui Olmi riesce ad impostare questi quadri viventi, queste immobilità dello spirito rappresentate dai corpi e dalla materia dell’ambientazione, è maestria primitiva ed originaria. Torneranno i prati è un racconto ancestrale, ben collocato nell’immaginario storico, ma resta sempre un racconto dai presupposti universali e archetipici, compresa l’iconologia con cui dota ogni figurazione in scena.
Allo stesso modo, il filmico aiuta il profilmico ad invadere l’animo dello spettatore attraverso la forza irruente della sua messa in scena. La bellissima fotografia di Fabio Olmi attiva nello spettatore un’esperienza sensibile attraverso la monocromia del grigiore terrigno con cui si ammanta ogni luogo interno e ogni volto, ogni figura, mentre l’esterno è ugualmente abbagliante nonostante il bianco candore della neve sia reso opaco e inscurito dalla volontà di ovattare il racconto filmico in un tedio infero. Così operano ugualmente le musiche di Paolo Fresu che riecheggia i suoni della valle e della guerra, anche se va detto che l’accompagnamento musicale è pressoché assente e trionfa invece la musica diegetica della fisiologia umana e della natura, le voci, i dialetti, le canzoni e soprattutto i terribili bombardamenti resi con estremo realismo e che conferiscono al film lo status di “horror” generando nello spettatore, o almeno così ha funzionato con me, orrore puro, angoscia e paura reale e imminente.
Questi spettacolari bombardamenti sono forse, tra gli elementi puramente narrativi, quelli più incisivi e fondanti l’estetica di terrore che sottace a tutta l’operazione autoriale del regista. Il cinema di Ermanno Olmi non è cinema neorealista, ma leggendario ed evocativo, allegorico e archetipale. Può ben essere catalogato come cinema fantastico. Nella sua opera il realismo è rintracciabile solo nella messa in scena, storicizzata come di fantasia, che viene poi trasformato in evocazione attraverso la poetica con cui il Maestro decide di volta in volta di fotografare, riprendere, impostare e dirigere la scena stessa. I bombardamenti, come ogni irruzione della violenza, sono improvvisi, secchi ed estremamente realistici, ma al tempo stesso non giocano sulla facilità del disgusto estetico a cui molti film di guerra recenti ci hanno abituato. Gli sbudellamenti e il disfacimento del corpo che ritroviamo in molti film di guerra da Salvate il soldato Ryan (1998) a Nobi (2014) hanno sdoganato anche nel cinema bellico la componente splatter individuando in essa il mezzo estetico per riflettere sulla cosificazione del corpo in battaglia, il suo annichilimento brutale e totale. Olmi invece riesce a rappresentare tale annullamento di ogni dignità umana attraverso i meccanismi più ancestrali del racconto del terrore, esponendo il corpo martoriato il meno possibile, preferendovi il testo con i suoi vari lirismi, idioletti e socioletti, le sue bestemmie e i suoi silenzi e dotando ogni singola scena di uno straniamento poetico tale per cui all’annullamento dell’essere umano fa eco l’umanità delle vittime e la solidarietà dell’uomo coi suoi simili.
In tutto questo apologo umanista aiuti fondamentali arrivano dai referenti animali, vegetali e minerali del mondo naturale, ancora una volta ripreso dal Maestro come universo archetipale da cui estrapolare i significati più poetici e inspiegabili della vita. Dal topolino e dalla volpe che fanno compagnia ai soldati nella loro desolata solitudine, al larice dorato, simulacro di un futuro di speranza poi bruciato da una bomba, fino alla pietra, la roccia madre e la montuosità che li circonda, tutti questi elementi naturali che Olmi convoca quasi fantasmaticamente nel convivio umano, se non simboleggiano direttamente qualcos’altro sono ugualmente dispositivi narrativi e iconografici attraverso i quali i personaggi e lo spettatore possono riferire, intessendoli tra loro, gli elementi esterni, visibili e percepibili con il magma informe interno e invisibile dell’animo umano dove sono depositate le nostre personali mitologie.
La mitopoiesi olmiana privilegia così i contorni ineffabili della favola senza perdere di vista l’importanza sensibile del reale e del materico utilizzando i referenti naturali e l’insostituibilità della centralità dell’uomo come i segni deputati alla connettività con il magma interiore di ogni essere umano posto in relazione oggettivale con il mondo attraverso gli elementi e i simboli della narrazione archetipale. In questo, lo sguardo registico conferisce alla storia narrata l’immortalità mitologica della favola grazie all’uso disformale dell’immagine, strumento alieno all’oralità. Ermanno Olmi da sempre ci invita a fermarci, a sederci, a guardare e a contemplare la natura, l’uomo, i dettagli, i volti, gli oggetti, le storie, prendere fiato e poi rialzarci e continuare il viaggio. Lo fa anche con Torneranno i prati posando il suo celebre sguardo contemplativo su ogni piccola e grande cosa del mondo.
Il trionfo del film è racchiuso in tutti questi elementi, in queste continue referenze con la natura e nella sua messa in scena teatrale ed estraniante in cui la minimalità della recitazione supportata da lunghi e bellissimi primissimi piani agisce come teatro di fantasmi, di sogni, di ombre, figure, sagome, insognazioni. Il testo, bellissimo e molto letterario, e la plasticità dell’azione scenica sono i segnali dello stato di grazia con cui il Maestro Olmi ha saputo scrivere e dirigere una delle sue favole più belle, scopertamente antimilitarista, apolitica e laica. Un capolavoro.
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